mercoledì 30 agosto 2017

Tommaso Romano, "Nel Mio Regno dei Cieli" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Giuseppe La Russa

Chi conosce Tommaso Romano sa, ovviamente, della sua intensa attività, del suo profondo impegno come mediatore culturale nella vita di Palermo, capoluogo siciliano in cui egli vive e in cui ha fondato la sua casa–museo e fondazione Thule. Proprio a quest’ultima sede logistica viene da pensare nell’approcciarsi alla lettura del poemetto Nel mio Regno dei Cieli, edito nel 2017 con prefazione di Salvatore Lo Bue. Non si tratta di un accostamento semplicistico, perchè in fin dei conti è necessario un semplice dialogo, un pomeriggio trascorso in compagnia di Romano presso la fondazione, per capire quanto quel luogo rappresenti la personalità stessa dello scrittore, una stanza sita vicina al caotico centro di Palermo eppure così lontana da esso, immersa in una dimensione che profuma di atemporalità, di silenzio, di attesa. Chi scrive questo pezzo si è ritrovato spesso lì, a dialogare con Romano, a sfogliare dei volumi, a contemplare tutto ciò che adorna quel non-luogo e una delle cose più sorprendenti è come ogni oggetto vari spesso collocazione, nell’assunto, dichiarato da Romano stesso, di una continua ricerca della perfezione, ma nella consapevolezza che la perfezione non esiste: una questua perenne ed inesausta, dunque, che dalla vita convulsa di tutti i giorni si traduce anche nella quiete della fondazione. È lì che possiamo immaginare il pensatore, il poeta, il lettore, l’uomo Romano, orientato nel suo silenzio verso quella investigazione, verso quella ricerca di un senso, di un approdo, con lo sguardo verso il mondo esterno, teso all’ascolto del proprio «battito del cuore per poter percepire e raggiungere l’Origine», per usare le sue stesse parole.
Questa premessa, dunque, diviene funzionale per una interpretazione seria del poemetto Nel mio Regno dei Cieli, opera che consta appunto di silenzio, riflessione profonda e che, come Carmelo Fucarino bene analizza, «rappresenta l’urgenza di fermarsi e di cercare di dare un significato al proprio percorso umano, quotidiano e spirituale».
Gli occhi di Romano sul presente sono spietati, mettono a fuoco in maniera prorompente la deriva dei tempi, dove «solo chi sa produrre e frodare è», ha una vera essenza, può essere dentro il mondo; la constatazione forte è come la parola ‘Dio’ abbia assunto un significato relativo, che tutto sia relativo, che i cuori si siano fatti deserto, incapaci di far fiorire in sé la luce della Bellezza, della Verità, della libertà. Anche le parole sono abusate, anzi è la Parola che diventa insensata: questo concetto viene subito posto all’attenzione di chi legge, ad incipit del poemetto: e chi ha letto l’opera di Romano sa quanto per il poeta la parola sia essenza, manifestazione dell’Essere, quanto essa abbia «un valore fondante che non può essere disperso, soprattutto quando si tratta non della parola in quanto tale, ma in quanto esperienza forte di un linguaggio che è Verità».
La verità, inoltre: essa è un passaggio essenziale della ricerca di Tommaso Romano, verità che coincide con una vita autentica, con una riflessione capace di accompagnare lo sviluppo della vita stessa, che coincide con la bellezza, di cui l’arte può e deve farsi portatrice: ma adesso, constata amaramente il poeta, «tutti gli Dei sono giusti/tutti sono nella verità/perché tutto è verità/anzi nessuna verità,/in profondo». Viene meno proprio questa autenticità tanto ricercata, Cristo sembra essere stato sfrattato, chi segue veramente il messaggio evangelico è forse uno dei pochi “appestati”, uno degli ultimi baluardi, osservatore di come tutto stia crollando, «anche ciò che era l’umano».
In questo quadro desertificante, che risente certamente della lettura di Nietzsche, non dobbiamo però pensare ad un approdo nichilista e nullificante: lo sguardo è rivolto verso il nulla che si sta consumando, che si va plasmando agli occhi di chi osserva, ma non viene mai negata la presenza di Dio, della Bellezza, della Verità. Sono questi dei capisaldi che, nel demistificante presente, vengono messi da parte, ma da Romano continuamente rievocati, urlati, acclamati; il bisogno è proprio quello di un ritorno all’essenza, al silenzio operante, ad una vita fatta di verità e ad una verità fatta di vita. Cristo è continuamente cercato, così come ci ricorda un vecchio testo, Tutti parlano di vita, rivolto proprio al figlio dell’Uomo e in cui si possono leggere similari conclusioni: «Ti trovo e ti cerco/vicino e nella lontana attesa/in tanto smarrimento». Ma ciò che rimane è proprio il tacere, è il silenzio, si diceva: ecco perché quella premessa che immagina Romano all’interno delle stanze della fondazione ad osservare il deserto intorno, l’inferno dei viventi: «Che fare/, se non riconoscersi appena/fra liberi viandanti/sfruttati e senza diritti/se non il tacere/».
Che fare? Un’interrogazione rivolta a se stesso e a chi legge e ha la volontà di capire, di orientare il proprio sguardo ai bisogni estremi del proprio spirito, a chi ha capacità di resistere. Resistere è proprio l’ultimo invito, «forti soltanto di ciò che siamo e di ciò che noi sapremo essere ben oltre i vicoli ciechi», nella consapevolezza di uno sguardo che nonostante tutto rimane lucido, attento, che sa essere luce, perché, come Salvatore Lo Bue mette in evidenza, «la Parola non muta, la bellezza è luce è verità […] Ma occorre un riparo, uno spazio in cui la Luce possa essere custodita»: e il riferimento è proprio la casa-studio-sacrario di cui si diceva in apertura.

In quello spazio inviolato Romano fonda la sua prospettiva, descrive il suo silenzio, disegna la sua attesa, trae la luce che lo guida ancora nella ricerca, nella contemplazione, alla scoperta continua ed inesauribile di nuova Bellezza, al perpetuo desiderio del proprio regno.

venerdì 4 agosto 2017

Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei cieli" (Ed. All'insegna dell'Ippogrifo)

In nome del padre
Trenodia per i moderni o post-

 di Carmelo Fucarino

Nel corso della vita c’è sempre un momento in cui si sente la necessità e l’urgenza di fermarsi e cercare di dare un significato al proprio percorso umano, quotidiano e spirituale, riassumere i fili del nostro essere uomini dotati di intelletto. È l’esigenza di fare un giro di orizzonte, di guardarsi intorno per rilevare lo stato di essere, dopo tanti labirinti che si sono percorsi, strade intrecciate con bivi erculei che abbiamo dovuto scegliere.
E questo è avvenuto nel percorso culturale e umano di Tommaso Romano. Il giro di orizzonte in un hic et nunc che diviene la conclusione e la sintesi di tante, numerose, misteriose esperienze, volute e cercate, piovute casualmente attraverso imperscrutabili segni del destino, incontri letterari inattesi e imprevisti, conoscenze umane presentatesi senza ordine e preavviso.
Da questo straordinario e immaginifico passaggio di vita la riflessione e l’affabulazione si sono distese ed espresse nella poiesis, un “fare” che è diventato parola sublimata, sintesi allucinata e consolatoria, Verbo che ha cercato di agglutinarsi nell’essenziale della poesia.
Eppure tanta era la piena delle riflessioni, tale la ridondanza dei ricordi e delle certezze acquisite che non è stato sufficiente l’ambito ben “concluso” di una poesia, i pochi versi distillati di pathos e Idea. Un tempo, al suo nascere, dice la leggenda per opera di Jacopo da Lentini, il sonetto fu la poesia per antonomasia, due quartine e due terzine incatenate da rime. Si concesse breve spazio in più al sonetto caudato. Tutto l’altro era soltanto parola cantata nei balli di corte, dalla canzone allo strambotto, dalla pastorella alla laude. La musica e il ballo erano i protagonisti, la parola una traccia rappresentativa di narrazione. Il tutto canonizzato in strutture ben precise di danza e canto.
Poi per secoli si mantennero tali strutture fino al lampo di un verso, quell’abbagliante “Mi illumino di immenso”.
Ora Tommaso non ha trovato nei ritmi canonici uno spazio sufficiente per la sintesi di un attimo di vita. Come l’Ariosto dell’ottava che ebbe bisogno di più ottave per concedersi e concludere le sue fantasie che si gonfiavano a dismisura.
Perciò è tornato ad una forma alessandrina, a quell’epyllion, il piccolo poema epico, si dice invenzione di Callimaco, ma nato con lo pseudo-Esiodo e il suo Scudo, transitato in Sicilia con Teocrito e Mosco e passato a Roma con Catullo 64 ed Eurialo e Niso di Virgilio. Certo che erano altra cosa, ma l’input, la scelta “necessaria” era dettata dal dire, dall’esporre tutto, senza nulla omettere, più che in un semplice epigramma elegiaco.
E inoltre l’uso dell’epico esametro, il verso primo in assoluto dal sanscrito ad Omero e Virgilio. Con il suo ampio respiro, il suo ritmo variegatissimo che riempiva polmoni e mente.
Così Tommaso Romano ha organizzato lo sviluppo epico del suo canto, un dilungarsi nelle volute del pensiero, un accogliere tutti i riverberi e le modulazioni della proteiforme realtà. Perché in questo è consistita questa analisi del presente, la vivisezione di una realtà drammatica e angosciante, nella delusione e nel tradimento della Mente.
Nella diacronia dei messaggi e dei pensieri forti si parte dal filosofo-poeta, il più grande pensatore in assoluto, l’unico di tutti i tempi e luoghi, il mio adorato Platone. Dopo di lui tutto è stato ripetuto, talvolta in un vaniloquio, un affastellarsi di formule e schemi, complice e pianificatore l’Aristotele dell’ipse dixit. E si oscillò per secoli tra Idea e Reale, tra Pensiero e Materia, tra Soggetto e Oggetto. Nell’arida sequenza della prosa scientifica. In questa riflessione sull’esistenza esplode qualche appello diretto, penso a Emanuele Severino e alla «tecnica non ha vinto… ha vinto il denaro». Oppure alle «presunte classi / per la rivoluzione del popolo avvenire», quel comunismo tradito e prostituito ad uso di dittatori folli, vero oppio dei popoli. Oppure quello sprazzo, la fugace lieve toccata a Die fröhliche Wissenschaft (La gaia scienza) di Friedrich Nietzsche, «l’uomo è stato redento / da progresso veloce / da gaia scienza perfetta / che sentenzia», in quella ardua, dolorosa, disperante e disperata negazione di Dio, che «non solo non c’è mai stato / ma neppure ha dato e creato / men che meno nella Rivelazione / di sé». E qui mi fermo in quanto a richiami di fonti.
Tutto è nel titolo del poemetto, “Nel mio Regno dei Cieli”, un regno in cui risolvere tutti gli inganni e i tradimenti, un’ancora soteriologica che aspira a salvare se stessi e il Verbo di Cristo adulterato, mistificato, tradito da tutti, fedeli e cultori ed utilizzatori di seconda mano. E poi quell’incipit, nell’appello al «tempio profanato / dalla parola insensata», verso il limes estremo, il confine ultimo, un ipotetico hortus conclusus, il «flusso di pensiero veritativo / di spirito liberante».
E da qui mi sono ritrovato in un oceano turbinoso di être et néant, un nebbioso fantasma di realtà vituperata ed esecrata, la quotidianità presente e la sua immediata fulminea negazione, senza scampo alcuno. Dalla prima strofa il “lontano restare / e finalmente abiurare”, con la dirompente e dissacrante “dichiarazione mendace”, quella del primo fondante comandamento del “Buon Annunzio”: “amare il prossimo mio”. Dal Cristo della rivoluzione di amore al tropos di vita del filosofo greco, innominato, ma quale “filosofo e greco”, «per incensare le vostre miserie / le pseudoscienze delle vostre frustrazioni», etc.  E le odi alla luna e il crollo fragoroso e lo smarrimento dell’umano, e gli «oligarchi senza bandiera / peggio di tiranni», incapaci di fondare libertà anche dentro di se stessi. In questa desolante mistificazione si impone il relativismo imperante, «tutto è il nulla annunziato / nel deserto dei cuori», miseria ogni conquista per rapaci avvoltoi. E nel nulla del relativismo precipita anche Dio, «parola senza significato», fra tanti Dii ove «tutto è verità / anzi nessuna verità». E alla fine del terribile nulla, ove anche Cristo è venuto per nulla, sfrattato e strumentalizzato, «non conti nulla», «non mischiarti», in questa delirante ossessione di laicoagnosticoateo dell’ovvio perbenismo, tra l’indifferenza dei ministri di culto non credenti e chierici stanchi. È l’abiura e l’assenza dello “Spirito smarrito”, “apolidi e contaminati”. E ancora quel martellante “quanto mai” sull’esser civili, sull’equità del diritto, sulla felicità, “tutto falso /favola”, quelle di una volta, bambini «col giglio e marsina». L’appello a Platone sul “procreare”, «solo consegnare numeri / ai mercanti dello sfruttamento» nel provvisorio squallore del riuso impossibile. L’essere in quanto produttore e frodatore, il mondo dei pochi veri potenti, nella sconfitta della maggioranza roussoiana (il funesto equivoco della volontà dei più e volontà generale), volontà questa che “mai ha contato”. Si erge solo Faust, in una nuova “distinzione” e “selezione”, non di razze e colori, ma di presunta capacità / di sicura efficienza / di straordinaria destrezza», nuovi potenti «che odiano il genere umano / i piccoli e gl’indifesi». Il senso comune che è spento come una candela, neppure ridotta a fioca luce. E in questo massacro delle ideologie e delle speranze il ritorno all’eterno eraclitiano πάντα ῥεῖ (panta rei), il mondo che continua, il flusso che non si ferma, neppure un ingranaggio, le lacrime da coccodrillo, la promessa mantenuta di spoglie cremate, l’inutile pianto di foscoliana memoria, quello che ci farebbe vivere in eterno. Anche gli eremi sono snaturati in una visita per turisti a gettone, ove non conta più pregare o flagellarsi, testimoniare in numeri la fede, non conta il «testimone isolato /cantore di Verità», perché «la verità non esiste… l’apocalisse è soltanto un testo letterario». E come potremmo noi vivere senza colui che è la Parola, la Verità, la Vita? Nell’estrema e completa negazione l’esigenza di tesaurizzare, non sprecare il tempo a pensare, non favoleggiare sul futuro, si sta lavorando per allungarlo. Per render ancor più drammatica questa speranza di eternità l’ironia, corrosiva e irridente sui tecnici del corpo che manipolano e promettono secoli di eternità. Perciò «lavora / produci di più», non esiste stanchezza in una età media in aumento nell’alveare assegnato. In questa società di sovrani senza scettri e corone, “in tanta bassezza, dolore profondo e sorriso di bimbi abbandono di vecchi “inservibili”, nulla scuote il torpore del mondo. Non poteva esserci una trenodia più raccapricciante del nostro vivere. Il nulla assoluto in cui nulla si salva di questo pazzo correre verso il nulla.
E allora? Il terribile, angoscioso, problematico “che fare?”. Non quello pragmatico di Lenin a Stoccarda (Что делать?, Čto delat', 1901-1902), nella ripresa allusiva del romanzo di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, scritto nella prigionia della fortezza di Pietro e Paolo tra il 1862-63. Un “che fare” profondo, esistenziale, da crepuscolo degli dei e fine del mondo. La tragicità delle conclusioni sta già in quel fermo riconoscimento di essere «fra liberi viandanti / sfruttati e senza diritti». Con una sola via di uscita, desolante e priva di ardire davanti ai venditori di fumo: “il tacere” davanti agli spacciatori di false monete e di nichilistiche intese per «darsi da sé un minuscolo senso / che consenta a sopravvivere / finché possibile», il dantesco «non ragioniam di loro, ma guarda e passa». Ma è possibile ridurre questo effimero passaggio sulla terra a una semplice questione di “sopravvivenza”? Meglio non esistere o finirla ad età di ragione, se non si può incidere su questo scorrere inconsulto con la Parola.
Perciò il bergsoniano élan vital, lo stimolo della vita (bios parente di bia, “forza” e “violenza”) a “resistere”, verbo possente che richiama inconsapevolmente una fase storica e un essere stati italiani in quella lotta di liberazione dai nazisti. Oltre alla residua consentita sopportazione e senza illusioni, «forti soltanto / di ciò che siamo / e di ciò che noi sapremo essere / ben oltre, / i vicoli ciechi».
Non poteva esserci epigrafe più forte e liberatoria in questo deserto di sentimenti e di Idee, in cui una voce proclama la sua Verità, voce che grida nel deserto. Sulla trenodia, sul necrologio dell’essere, si erge l’uomo che oppone il petto contro le tormente dell’esistenza.
Questo ho potuto e voluto riassumere nel breve e scattante spazio di un file.