sabato 17 dicembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Sandra Guddo

Nel mondo della globalizzazione suscita stupore se non addirittura sospetto affermare con tutta tranquillità che non ci si sente “ cittadino del mondo “ né  tantomeno invaso dallo spirito cosmopolita. Un’affermazione forte che distingue in un modo o nell’altro chi ha avuto l’ardire, andando contro vento, di pronunciare una frase siffatta. 
Ma se a farlo è Tommaso Romano allora tutto ciò ha un senso!
“ L’Elogio della Distinzione “ infatti vuole essere ed è l’elogio rivolto a chi si distingue dalla massa amorfa ed uniforme, di chi si tira fuori dalla greppia, prendendo posizioni nette ed inequivocabili, fuori dai sofismi e dall’ambiguità, di chi pur ricercando la sintesi, rifiuta il sincretismo che attualmente sembra allargarsi a macchia d’olio su tutte le questioni più importanti del mondo: da quelle politiche  a quelle economiche e perfino alle questioni che afferiscono alla sfera più intima e privata del genere umano . 
Ciò inevitabilmente va a toccare temi delicatissimi come l’unione dei generi, una volta rigorosamente distinti ed identificabili, coinvolgendo, in tale miscuglio shakerato, lo stesso concetto di genitorialità che, come ha recentemente affermato Jorge Mario Bergoglio, rappresenta un attentato alla famiglia e alla tradizione e che seguendo queste idee “si rischia un passo indietro “ , fino ad arrivare sull’orlo del baratro!
In tal senso vanno anche i recenti studi di Aurelio Pace e Carlo di Pietro che nel loro volume “ Gender  ascesa e dittatura di una teoria che non esiste “ ( 2016) liquidano con argomentazioni lineari la teoria del gender che non ha trovato riscontri scientificamente dimostrabili, riaffermando il concetto della distinzione dei generi così come sociologicamente sono riconoscibili. Come ha sottolineato, fuori da ogni posizione omofoba, Giuseppe Bagnasco nella sua recensione, “ il progressismo ha condotto all’innaturale livellamento sessuale “ portando l’umanità ormai imbarbarita al disconoscimento dei valori fondanti della società civile.
Anche in tal senso va dunque elogiata la distinzione, “ fermo restando che attraversiamo tempi apocalittici che hanno il prepotente obiettivo del sovvertimento verso una profonda, perniciosa modificazione antropologica”. 
 Tommaso Romano non esita, contro tutte le recenti teorie che parlano di un’uguaglianza falsamente umanitaria, a sostenere che è aristocratico colui che si distingue.
Non a caso Egli, nel Florilégio di Autori che costituisce la seconda parte del suo corposo volume, riporta l’energica affermazione di Nicolas Gomes Davila  “L’uguaglianza è la condizione psicologica preliminare delle carneficine fredde e scientifiche”.
 Concorda con tale affermazione Giovanni Taibi nella recensione all “ Elogio “ in quanto chiarisce che “ l’uguaglianza intesa come obiettivo supremo da raggiungere per un popolo che vuole definirsi civile “ è autodistruttivo per lo stesso popolo.
 Chi si distingue è un aristocratico inteso non nell’ accezione più diffusa che viene attribuita a tale sintagma la cui etimologia è nota a tutti: “ aristòs e cratòs” cioè potere ai migliori che ha portato, durante i secoli, ad una significazione della parola aristocrazia restringendola fondamentalmente alla sola sfera politica; tanto è vero che nell’antica civiltà greca vennero coniate altre parole per delineare tutte le possibili forme di governo della polìs: monarchia, oligarchia e democrazia.
E’ utile non trascurare questi concetti – base ma nell’ “Elogio della distinzione “ il filosofo Tommaso Romano conduce un’analisi ad ampio spettro che allarga il concetto di aristocrazia, finora intesa  come una delle tre classi sociali in cui era diviso il popolo, accanto a borghesia e terzo stato o proletariato, al concetto di distinzione; ciò in quanto sono i migliori che si distinguono per i loro meriti, rivelando nobiltà d’animo, signorilità, gentilezza e sono interpreti di cortesia e cavalleria, di raffinatezza e buongusto contro la dozzinalità, la serialità, la rozzezza e la volgarità. In sintesi, per dirla con il sommo Poeta “ La stirpe non fa le singolari persone nobili, ma le singolari persone fanno nobile la stirpe “. 
 Sono i migliori che si affermano in un campo o nell’altro attraverso il talento che è innato; ma ciò non può bastare: occorrono impegno e determinazione per evitare che il proprio talento non venga sprecato, oscurato, sepolto da una vita ordinaria e senza una giusta ambizione. Già in una bellissima ed esemplificativa parabola del Vangelo, narrata secondo  Matteo ( 25, 14- 30 ) si parla dei  talenti, monete in quel tempo in circolazione. Il messaggio della parabola è inequivocabile: va lodato colui che sa far crescere il proprio talento e non chi, per eccessiva prudenza o forse per pigrizia, lo seppellisce senza ricavarne nel tempo alcun frutto.
Ecco che allora la nobiltà d’animo può appartenere a chiunque anche al più piccolo ed insignificante degli uomini purché si distingua per l’impegno, per la serietà, per la professionalità e, consentitemi di aggiungere, per l’amore con cui svolge il suo ruolo nella visione complessiva del cosmo, “ la cui bellezza, a ben guardare si può rinvenire anche in un filo d’erba “.
Tommaso Romano non ci tiene proprio ad essere genericamente ritenuto “un buonista” o peggio “cittadino del mondo”, non di questo mondo almeno, in cui i poteri forti di potenti lobby economico – finanziarie hanno iniziato uno strisciante appiattimento della distinzioni: addio alle ideologie in antitesi, addio alle peculiarità di un popolo in nome di mode che appiattiscono i nostri gusti anche a tavola e ci vengono propinati cibi seriali  a favore di un’economia senza scrupoli che, nel tempo ha saputo indebolire i popoli  trasformando le nostre democrazie in palcoscenici della menzogna ; sono state precarizzate le nuove generazioni rendendo i nostri giovani una categoria indifesa di fronte al problema del lavoro; è stata impoverita la media e piccola borghesia per non parlare dell’aristocrazia che è stata confusamente cancellata con un colpo di spugna sostituita da una feroce dittatura sovranazionale che conosce una sola parola: il profitto !
Ma  Tommaso Romano non ci sta ed in coerenza con quanto esposto nel suo “ manuale “ di sopravvivenza, preferisce restarsene in santa pace nella sua casa, dove ogni cosa ha un valore intimo e spirituale in compagnia dei propri cari e di pochi e selezionati amici con i quali sarà possibile incontrarsi anche al Cafè de Maistre a discorrere di filosofia o di storia o semplicemente a gustare un buon caffè o qualche delizia pasticciera, ammirando il mare che si scorge dalla vetrate in stile liberty del cafè. 
Da Lucio Enneo Seneca il nostro Autore ama ribadire che ha imparato l’esortazione ad una vita umile e sobria ma il grande pensatore iberico non poteva ancora sapere che la  sobrietà, un termine oggi molto apprezzato, in fondo non è che una delle quattro virtù cardinali: la temperanza. Così la pensa Antonio Nanni nella sua opera “ La sobrietà come stile di vita” ( 2003 ) allorché afferma che “ La sobrietà è il nuovo nome della temperanza ( … ) chi agisce nella temperanza non è smodato, eccessivo, ingordo, sregolato ma è persona semplice ed essenziale in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare, ricominciare. La sobrietà è in questo senso la virtù del futuro “.
Risulta quindi necessario cominciare a liberarsi da tutto ciò che è di troppo, dalle ridondanze per puntare all’essenziale. Tale leggerezza soltanto apparentemente sembra contrapporsi alla ponderosità dell’opera ( quasi duecento pagine ) , divisa in tre corpi : 
1.      Saggio dell’Autore che è, come Egli stesso la definisce, una “ Apologia della Condizione Singolare “.
2.      Florilegio di Autori, arricchito da immagini che ritraggono gli antichi Cavalieri disposti a tutto, pur di salvare i Luoghi Santi dal dominio degli infedeli, pronti a combattere fino alla morte “ perinde ac cadaver “.
3.      Saggio di Amadeo – Martin Rey y Cabieses, composto appositamente per “ L’Elogio della distinzione”.
Tommaso Romano, nell’Elogio della Distinzione, conduce una speculazione filosofica che diventa un vero manifesto di ecosofia in quanto attribuisce grande valore all’ambiente ed in particolare alla casa in cui si vive che diventa lo specchio della nostra scala valoriale. Un’abitazione, anche modesta purché sia personalizzata da “cose non oggetti “ raccattati dove capita ma scelti ad interpretare  il nostro gusto, le nostre passioni ed inclinazioni,  in sintesi il nostro percorso esistenziale fino a conferire alla nostra casa un’impronta inconfondibile, un’anima.
Rispetto alle opere precedenti nell’ Elogio della Distinzione, la dissertazione filosofica, pur nella complessità del suo pensiero, diventa quasi colloquiale e si notano un alleggerimento del fraseggio ed una lievezza narrativa che rientrano, a mio parere, in quel naturale percorso ascetico ed ascensionale che Tommaso Romano sta compiendo da” quel buon cristiano di fede qual è “  per ritornare al punto di partenza, là dove tutto ha avuto Origine.

Il libro si chiude nel modo migliore, con un cortese Congedo al Cafè de Maistre per ritirarsi, come un anacoreta occulto, nel silenzio di un eremo immaginifico, in attesa e nella speranza del ritorno alla Tradizione, del divino intervento provvidenziale e della Parusia.

giovedì 1 dicembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

                                                                    di Giovanni Taibi


La distinzione per non perdersi nel mare magnum della volgarità di usi e di
costumi oggi imperante, la distinzione per rivendicare la propria individualità davanti alla massa plaudente che ha come unico merito quello di correre in
soccorso del più forte !

 Come distinguersi, come essere se stessi, come vivere con stile in un tempo di barbarie ?
Sono questo le domande che si pone il saggio di Tommaso Romano “Elogio della distinzione”, ( fondazione Thule cultura) in cui passa in rassegna l'esegesi e la storia dell'Aristocrazia, della Cavalleria e della Nobiltà.
Se i natali danno in qualche modo un imprimatur necessario, questo solo non è sufficiente per fare di un uomo un gentile.
Dante ce lo insegna:  la vera nobiltà non risiede solo nella stirpe e nel sangue ma soprattutto nel cosiddetto cor  gentile ovvero nell’animo capace di provare nobili sentimenti e comportarsi di conseguenza.
 A partire da questo assunto Romano, in quello che si può considerare un vero e proprio manuale del viver cortese, diventa guida sapiente per chi intenda
intraprendere con totale disinteresse economico e professionale la strada
verso la distinzione, contro la massificazione e la standardizzazione dell'uomo di oggi.
“La distinzione può essere perseguita da tutti volendolo, ordinando le idee, seguendo studio, esempi e ciò che di nobile ditta dentro”. ( pag 5)
Come d’altronde ci insegna il filosofo Epicuro: “ Non la natura, che è unica per tutti, distingue i nobili dagli ignobili, ma le azioni di ciascuno e la sua forma di vita”. (pag.68).
Nella prima parte del libro troviamo l’Apologia della condizione singolare in cui  Romano si appoggia a uno dei pilastri del suo pensiero: la Tradizione.
Come ama spesso ripetere: “Tanto più forti saranno le sue radici tanto più
l'albero ( l'uomo) crescerà in altezza ( morale)”.
 Dopo avere passato in rassegna il pensiero legato alla Tradizione Romano affronta un tema a lui particolarmente caro : la casa.
Essa da semplice dimora diviene la cartina di tornasole da cui è possibile avere un identikit esatto di chi la abita, del suo ( buon) gusto, del modo in cui passa il tempo libero, del valore che dà agli oggetti che diventano testimonianza delle sue esperienze di vita .
Sapere distinguersi non può che passare dal modo in cui si vive la casa, dal
rapporto che si instaura con essa ma questa non deve necessariamente essere un rifugio solitario, un eremo senza terra ma "può aprirsi, accogliere pochi e scelti interlocutori per goethiane affinità elettive..... I libri, le suppellettili, gli oggetti, la musica, le buone persone, un animale fedele, la memoria ci faranno ala non certo
ingombrante" ( pag 22).
Si può dunque affermare con Romano che la casa è la proiezione della propria identità.
Dopo questa prima parte di carattere didascalico il volume presenta un florilegio di autori diversi, per stile,  pensiero ed epoca storica, che nei loro scritti e nel loro pensiero hanno codificato regole e grammatica della Nobiltà, spiegato il motivo  della nascita della Cavalleria  e dell’Aristocrazia. In quelli più recenti, è presente la biunivoca corrispondenza tra caduta di valori dei nobili ideali e crisi del tempo storico presente.
Tra le tante citazioni mi piace riportarne una di Nicolas Gomes Davila.
Lo scrittore, aforista  e filosofo colombiano così scrive: “Più gli uomini si sentono uguali, più facilmente tollerano di essere trattati come pezzi intercambiabili, sostituibili e superflui. L’uguaglianza è la condizione psicologica preliminare delle carneficine fredde e scientifiche”.
Se ci riflettiamo bene, altro non è che un elogio della diversità alla rovescia cioè mettendone  in evidenza i limiti autodistruttivi dell’uguaglianza intesa come obiettivo supremo da raggiungere per un popolo che vuol definirsi civile. 
 Segue infine un saggio sulla Nobiltà, ( scritto appositamente per Tommaso Romano) sulla Cavalleria e sull’Aristocrazia dell'illustre studioso,  il nobile spagnolo Amadeo-Martin Rey y Cabieses, (Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma )  storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che mostra  una particolare attenzione alla storia della nobiltà italiana.
Lo scrittore spagnolo espone a chiare lettere quelli che sono i tratti distintivi della nobiltà:  il rispetto della parola data, la bontà, la generosità, il valore e l’umiltà del cuore.
Nel capitolo finale, prima di una ricchissima bibliografia, c’è il Congedo al Café de Maistre, in cui Romano, malinconicamente, constata come ai nostri tempi la cultura, l’arte, la tradizione, la stessa fede siano diventati degli pseudo valori da utilizzare a piacere per il proprio tornaconto.
E allora cosa fare ? La ricetta di Tommaso Romano è semplice eppur non sempre facile da attuare: “ Resistere, pur sapendo di servire una causa perduta…..Profferire parole e concetti solo quando richiesto, declinando con garbo ma fermamente la compagnia di arrivisti, molesti e insulsi; studiare e scrivere per sé e per chi egualmente non si piega…….mostrare la bellezza e la potenza del creato. Tutto ciò con la ferma consapevolezza di  stare in minoranza, in assoluta minoranza, forse testimoni attivi di una ipotetica, eventuale futura memoria”. ( pag. 133-134)
Una voce fuori dal coro, un anticonformista assoluto che nella vita ha sempre seguito i suoi ideali a costo di rimetterci personalmente, pur di non abbassare la testa davanti al potente di turno. Questo è, ed è sempre stato,  Tommaso Romano per chi lo conosce e a cui non fanno stupore le lapidarie frasi del suo “Elogio della Distinzione”.
Per i pochi che non lo conoscono ancora, questa lettura servirà a comprendere  la figura di un intellettuale a volte scomodo ma per questo più interessante da studiare perché, attraverso il capovolgimento della prospettiva, ci fa vedere la realtà con occhi diversi e disincantati.       

lunedì 21 novembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

LA DISTINZIONE COME NOBILTÀ NEI CAVALIERI DELLO SPIRITO
di Giuseppe Bagnasco


  Dopo l’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel e il più vetusto Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, tra i più rinomati e che si “distinguono” dai tanti, per gli argomenti similari trattati nel campo della disquisizione antroposociologica, ecco l’arrivo sul tavolo delle nostre “distrazioni”, quasi a completamento di una sorta di Trilogia, L’Elogio della Distinzione (Fondazione Thule Cultura – Palermo 2016) del filosofo Tommaso Romano. Non è un trattato ma un “manifesto”, una riflessione non confessionale, sullo stato e condizione contingente e spirituale a cui è pervenuta la società contemporanea del mondo che per semplificazione chiamiamo “occidentale”. Un manifesto, dicevamo, che si può leggere alla stregua di un manuale di regole educative, senza per questo assumere i connotati di una filippica sebbene a tratti appaia come significativa e volitiva “omelia”. Né poteva essere diversamente per l’argomento affrontato e che spazia per tutto l’arco della devianza nei comportamenti “tradizionali” dell’uomo odierno.
   Per potere scrutare a primo acchito il poderoso testo e carpirne le parti più salienti, visto che è composto da ben tre “corpi” relativi ad un saggio dell’Autore, un saggio dell’illustre Amadeo-Martin Rey y Cabieses e un ricco e unico Florilegio di Autori, ci viene in soccorso il sottotitolo: Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie. Non c’è alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una esplorazione storica e sociologica su ciò che questi “titoli” hanno rappresentato e che l’Autore  sottolinea con l’intercalare il testo di disegni riferiti a momenti d’azione della Cavalleria  d’un tempo con schiere cristiane affrontanti le saracene e la raffigurazione nell’antifrontespizio della sagoma idealizzata del Krak (fortezza crociata in Siria) dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme divenuti poi di Rodi, infine di Malta e oggi rappresentati dallo SMOM.
   Tommaso Romano, non nuovo nell’esposizione di “tesi teologali” sullo spirito, da buon cristiano di fede qual è, mette al servizio del dettato di Dio, la vestitura armata del distinto “Cavaliere dello Spirito”. E lo fa discettando sui temi sopraindicati, a cominciare dal concetto di Aristocrazia, distinguendo quella di spada da quella dello spirito.  L’aristocratico, nel composto della semantica greca di aristòs (eccellenza) e cratòs (potere di governo), delinea una persona che si governa da sé e per espansione, colui che si isola dalla folla. E per folla, come afferma l’Autore, s’intende quanti sono accomunati nella volgarità, rozzezza, dozzinalità e violenza del comportamento nelle parole come negli atti, fino ai modi. Tuttavia, sempre nel proseguo della ratio in Romano, l’isolarsi dalla realtà, l’eccessivo autocontrollo, compresa la mancanza di ironia, non consentono l’educazione alla nobiltà che, di contro, si consegue nella capacità del saper scegliere il confacente rapporto con il prossimo. L’aristocratico è pertanto la persona distinta, custode di quei valori che dovrebbero armare  i suddetti Cavalieri per conquistare “nelle steppe del nulla, la Gerusalemme Celeste. Il tutto”. Oggi che il “progressismo”, l’innaturale livellamento sessuale, l’omologazione alla massificazione, portano ai conseguenti disvalori, fra tutto questo declinare un posto privilegiato è riservato ad una virtù d’eccellenza: l’Onore.
   Ora, a prescindere dalle valutazioni sottolineate dallo storico Franco Cardini che lo conforma a dignità personale, reputazione e onorabilità  comportanti il diritto della persona al rispetto e alla stima, bisognerebbe qui aprire uno spaccato su questa virtù che, a parere non solo nostro, incardina tutte le qualità del “buon uomo”, del buon cristiano ma che non si riflette nel diverso homo bonus del poeta Marziale. Incominciamo, purtroppo, col dire che le culture della menzogna, dell’ipocrisia, hanno inferto una profonda e dolorosa ferita nel comportamento deontologico degli uomini e in particolare nel malinteso senso dell’onore soprattutto se riferito alla latina sacralità della parola data, pacta servanda sunt, come comprova, per mantenerla, il  sacrificio del console Marco Attilio Regolo. Pensiamo ad esempio a quanti giustificano un loro scomposto agire con un’alzata di spalle o con quel “Je m’en fous”, di recente pronunciato dal Presidente della Commissione Europea Juncker e che fa comprendere quale ingloriosa fine abbia fatto quel certo bon ton!. Ma la trasgressione del senso dell’onore ha antica data giacchè la ritroviamo, spulciando la mitologia greca o passi della Bibbia, nei racconti del “padre” Zeus che ricorreva al travestimento e finanche alla sostituzione di persona per sedurre con l’inganno le belle mortali o come nella vergognosa e subdola condotta di Re David quando mandò in guerra, in prima linea e quindi alla morte Uria, lo sposo della bella Betsabea che aveva sedotto e che comunque poi da vedova sposò. E ancora, non possiamo elencarli tutti, nel tradimento fatto da un certo Horatio Nelson nei confronti dell’Ammiraglio Caracciolo (la resa in cambio della vita) e che invece fece impiccare sulla murata della sua Victory contravvenendo come un volgare pirata alla parola data. Infine, ricorrendo alla Storia, ancora sull’onore tradito, quando Enrico IV di Francia pur di mantenere salda la sua corona abiurò alla sua fede protestante e abbracciò quella cattolica con un probabile e analogo “Je m’en fous” nel famoso “Parigi val bene una messa!”. Ma i dettati del codice d’onore hanno sempre governato, lungo il corso dei tempi, gli uomini giusti e probi e ciò sin dai codici cavallereschi del Medioevo giungendo per alcuni tratti, perfino a quelli non scritti dell’onorata società, uniformemente intesa in tutto il nostro Meridione e giunta, con l’emigrazione “imposta” dopo la sua piemontesizzazione, fino alla “frontiera” dell’Ovest americano. Erano codici che tutelavano l’onestà della donna, intoccabilità dei bambini, la parola data, con in aggiunta il divieto di sparare alle spalle o ad un uomo disarmato. Norme non scritte nella vita che, fino all’abolizione formale del feudalesimo, si conduceva nei feudi e che era regolata da un castaldo, un soprastante, un fattore che amministravano la giustizia “parallela” essendo i feudi luoghi spesso “inaccessibili” anche alle compagnie rurali dei governi del tempo. Nacque lì la vecchia “onorata società” da non confondere con la successiva malavita organizzata o coi “picciotti” di La Masa che furono, ma ancor prima in letteratura nei manzoniani “bravi” di Don Rodrigo o nei severi “tribunali” della setta panormita dei Beati Paoli di natoliana memoria, il loro capostipite. Era quest’ultima una “Confraternita” segreta, come afferma il Villabianca, di uomini valenti che perseguivano i valori della difesa dei deboli e della giustizia pur rimanendo nelle loro feroci sentenze ferventi religiosi e credenti in Dio e al Santo di Paola, a cui si richiamavano. A uomini di tal fatta, a questi “uomini d’onore”, si deve l’appellativo di “cristiano”. Ma torniamo all’Elogio della Distinzione e al tema della Ecosofia affrontato dal filosofo Romano nel riconsiderare il senso della abitazione in cui si vive.
   Al pari di Francesco Alberoni che nel novero della scienza della comunicazione include quella che avviene attraverso il vestire certi abiti dando a questi la facoltà di dare un messaggio su chi li indossa, così il Nostro attribuisce lo stesso significato all’arredamento e al gusto di disporlo in un certo modo nella dimora di una persona dalle qualità “aristocratiche”. E questo come proiezione della propria identità dedicando tra gli arredi anche uno spazio ai ritratti dei propri antenati a guisa dei Lari e dei Penati dei Latini. Completano, conclude Romano, la bellezza della dimora, non necessariamente un palazzo, il poter accudire l’eventuale giardino di casa o il curare il collezionismo al pari di un personale museo, considerando entrambi come manifestazioni secondarie del gusto del dimorante. Con questo fare si può contrastare, aggiunge l’Autore, il completamento dell’ecatombe che incalza e principalmente col formare, con persone che in ciò si riconoscono, una sorta di patriziato civico di pochi ma decisi “Cavalieri”. Titolo di nobiltà, ammonisce il Nostro, che non deve essere acquisito tramite sedicenti Istituti che l’elargiscono dietro compenso essendo insita la possibilità di poter incorrere così, in quel “Todos Caballeros” che l‘imperatore Carlo V concesse a certi postulanti sardi che lo reclamavano. Frase che oggi viene usata in tono dispregiativo annullando di fatto la distinzione o il prestigio dei pochi che lo meritano.
   Fatto salvo questo primo “tomo” che forma il “corpus iuris” principale dell’Elogio della Distinzione, essa incorpora altresì una poderosa antologia, un Florilegio di Autori che espongono le loro frasi, trattazioni, aforismi nel reticolo degli argomenti qui esposti, con particolare riguardo al significato di Aristocrazia. Pur tuttavia di questi Eccellenti non ci è possibile citare tutti i nomi dal momento che in dettaglio l’elenco supera le cento pagine. Fa da cornice a tanto disquisire, un prezioso saggio del nobile spagnolo Don Amadeo-Martin Rey y Cabieses, storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che ne approfondisce lo studio, con un particolare riguardo a quello genealogico italiano. Il saggio dell’Illustre, Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma, risulta diviso in Nobleza, Aristocracia e Caballeria, speculari in qualche modo al sottotitolo dell’Elogio della Distinzione. Nella reflexion final l’Illustre raccomanda il rispetto della palabra dada, la bondad y la generosidad e la valentia y la humildada de corazòn perché solo la loro actuaciòn es la mejor aristocracia , cioè quella del poder de la bondad. 
   Alla termine di queste note, una riflessione, anche se non esaustiva, di quanto ci resta, speriamo in seguito non in briciole di memoria, della meritoria opera del “mosaicosmico” Magister. Senza scadere nella facile apologia di maniera, si resta “impressionati” da questo album di fotografie-commentario che, senza tema di supponenza, potremmo definire “De humanitate destructa”, giusto per parafrasare i commentari cesariani, nonchè coinvolti dall’afflato che traspare dalla malcelata angoscia con cui l’Autore esamina l’uomo sedotto e concupito dalla Tecnolatria dalla quale non si può distaccare senza il paventato pericolo di non apparire “politically correct”. Il richiamo risulta un accorato appello a quanti si avviano ciecamente verso l’abisso dell’anima trascinando con sé duemila anni di cammino e di acquisizione di una civiltà della quale restano testimoni ineguagliabili città uniche come Atene, Roma, Alessandria, Gerusalemme, Venezia, Pietroburgo. Un richiamo quindi per impedire a costoro di non finire aggrappati, in un rigurgito di ravvedimento, a quella “Zattera della Medusa” che tanto bene rappresenta la deriva di uomini disperati, il dipinto di Theodore Gèricault. A ben vedere, l’Elogio della Distinzione costituisce una sorta di testamento spirituale del Cavaliere dello Spirito Tommaso Romano, appartenente purtroppo all’esausto filone di un certo nuovo romanticismo, non letterario ma spirituale nel senso che si richiama al Passato vestendo la parola di “Redentore” di una certa cultura. Un testamento spirituale, dicevamo, che si coglie in questo Discepolo della Cultura che quale Pellegrino del Cosmo chiude questo pregevole lavoro, con fare quasi colloquiale, con un congedo, certamente non occasionale. Egli infatti inserisce al confine dei “tomi” trattati, un testo dal significativo titolo “Congedo al cafè de Maistre”. E volutamente, prendendone a prestito il nome, sceglie per siffatto “eremo senza terra”, l’immaginario ricovero in un Caffè, posto di fronte il mare nel Foro Borbonico (oggi Italico), dove in una atmosfera pregnante di “art nouveau”, si ritrova a scrivere, tra un caffè e il centellinare di un Porto, avvolto nell’aria da una coinvolgente musica mozartiana, una lettera, quasi una immaginaria “epistola apostolica” rivolta ad una civiltà al tramonto. In questa, da buon Anacoreta occulto, chiama alla resistenza con quel pudore, riserbo, dignità,  sensi comuni ai pochi frequentatori di quel Caffè, anche se ritiene che tutto è perduto, riprendendo in ciò la frase di Francesco Primo di Francia nell’infausto giorno di Pavia, nel messaggio alla propria madre, “Tutto è perduto fuorchè l’onore”. Ed è nel nome di queste virtù e dell’onore che il Romano, come in un battesimo liturgico, rinuncia al satana della egemonia tecnologica e alla dittatura del pensiero unico nello stesso modo in cui rinuncia agli applausi dei falsi adulatori, esprimendo come unica aspirazione quella di essere lasciato in pace dentro un immaginario Chiostro. E’ nel contesto di queste note che il Filosofo appare nelle vesti più dimesse dell’ordinario umano, svelando una sorta di stanchezza per l’impari lotta contro questo mondo destinato al declino, riponendo però l’ultima speranza nel salvataggio ad opera della divina Provvidenza. Si chiude così questa antologia, questo breviario-manuale di concetti, richiami, esortazioni che, iniziati con la Distinzione, anima della nobiltà del cuore e dello spirito, giungono al termine di questo excursus, alla malinconia nel corpo senza tuttavia coinvolgerne l’anima.

sabato 10 settembre 2016

Tommaso Romano, "Antimoderni e critici della modernitá in Sicilia dal '700 ai nostri giorni" (Ed. ISSPE)

di Corrado Camizzi

In un suo celebre libro, uscito nel 1966, il filosofo tedesco Hans Blumenberg, per rivendicare la “legittimità” dell'Età Moderna (vale a dire, in sostanza, della Modernità), piuttosto che ricorrere all'idea di “secolarizzazione” con l'implicita rinuncia a qualunque tipo di trascendenza, preferiva avvalersi del concetto di “autolegittimazione dell'uomo rispetto all'assolutismo teologico”, definito come un processo evolutivo del rapporto tra Ragione e Storia, svoltosi fra il tramonto del Medio Evo e l'avvento dell'Età Moderna e risoltosi, a detta dello stesso Blumenberg, nel “naufragio delle ultime aspirazioni dell'Illuminismo europeo”. Si sarebbe dovuto affrontare i presupposti stessi della Ragione Kantiana, nella loro intima sostanza, in una sorta di “Illuminismo dell'Illuminismo”, quale quello tentato, senza riuscirci, dai Filosofi di Francoforte. Ma il dibattito della cultura occidentale nei cinquant'anni succeduti al libro del Blumenberg, lungi dal percorrere tale cammino, ha insistito in un Razionalismo sempre più radicale e totalmente secolarizzato, persistendo in un ostinato rifiuto di qualunque apertura metafisica e di un corretto dialogo tra Ragione Fede. Eppure – come ha scritto Larry Siedentop, filosofo statunitense di orientamento laico-liberale, già allievo di Isaiah Berlin – proprio il Cristianesimo giocò un ruolo decisivo nella valorizzazione del rapporto di collaborazione tra Fede e Ragione. Solo nel XVIII secolo – appunto con l'Illuminismo – è esploso quel profondo conflitto fra Secolarismo e Fede, che vede oggi, nelle società occidentali, la forte recrudescenza che lo fa apparire inevitabile, relegando in una posizione subalterna l'ipotesi di una civiltà in cui istanze religiose e realismo secolarista potevano coesistere. Ma, a questo punto, è intervenuto il Laicismo – assunto a sua volta a concezione “religiosa” - a far prevalere la concezione conflittuale.
            La sconfitta dell'ipotesi conciliatrice tra Secolarismo e fedi religiose è stata ben rilevata, ad esempio, da Monsignor Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, che ha individuato, in Occidente, “un acuto processo di secolarizzazione che tende progressivamente ad estenuare il cristianesimo nella sua capacità di produrre civiltà. Solo nel contesto occidentale si è sviluppata per la prima volta una cultura che costituisce la contraddizione in assoluto più radicale, non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali della Società”. Un radicale positivismo, “dogma della modernità”, per costruire un Ordine senza Dio e fondato su una antireligiosità assoluta, che nega la natura e l'identità umana, ignora il Diritto naturale e la Verità, dando vita a quella che Papa Benedetto ha coraggiosamente denunciato come Dittatura del Relativismo.
            E contro questa, paradossalmente intollerante, dittatura relativista, che rende impossibile distinguere il Vero dal falso, il Bene dal Male, il Bello dal Brutto, vengono battendosi fin dalle sue origini, nell'Età dell'Illuminismo o, addirittura, della Riforma protestante con la sua “libertà di coscienza”, i critici della modernità con scarso successo, a dir il vero, dato l'ovvio, oppressivo predominio, nel sistema massmediatico, della cultura dominante, che è quella progressista e modernista.
            Con un'ampia ed esauriente rassegna, ha dato spazio a tali autori, coraggiosamente controcorrente, Tommaso Romano, editore, organizzatore culturale e uomo di pensiero egli stesso, con un corposo (oltre duecento pagine) ed elegante volume, edito per conto dell'Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici [Antimoderni e Critici della Modernità in Sicilia dal '700 ai nostri giorni, ISSPE, Palermo, 2012] e concepito dal particolare angolo visuale della sicilianità. In un'acuta e illuminante Introduzione, il Curatore rende ragione di tale scelta a favore di quella Sicilia che “Sofocle ebbe a chiamare Italia Illustre” e si può assumere come “metafora di un orizzonte certo più vasto”, “mosaicosmo siciliano [di] non redenti, non arresi all'ineluttabile modernità, pur con cento e cento differenze e tuttavia con un denominatore comune di critica e/o di spirito”. In Francesco Mazziotta (1859-1927) e Nunzio Russo (1841-1906) – citiamo solo a titolo d'esempio emblematico – appaiono più evidenti le peculiarità siciliane della critica mossa alla Modernità dagli autori studiati da Tommaso Romano: il primo auspice di un'Italia confederata, in cui l'autonomia della Sicilia si baserebbe sul motto secondo il quale “ciò ch'è legittimo e giusto è inviolabile” in quanto fondato sulle “libertà reali”, alla Sicilia sempre riconosciute, e non dedotte dall'astratta Libertà giacobina che l'Unità affermava; il secondo “...intransigente con la modernità … ritenne che Dio lo chiamasse alla missione di evangelizzazione della Sicilia dopo la tempesta rivoluzionaria che aveva portato (…) anche i processi di laicizzazione dello stato e di secolarizzazione della società che apparivano a lui come la dimensione storica di una guerra metastorica, apocalittica che (…) aveva coinvolto nazioni, governi nati dalla rivoluzione, sette massoniche, singoli individui in un progetto mondiale di estromissione di Gesù Cristo e della Chiesa dalla vita e dagli ordinamenti sociali”.
            Non è certo qui il luogo per estendere il discorso nemmeno ad una piccola parte dei centosessanta nomi rievocati nel ricco dizionario (il lettore li scoprirà da sé, uno per uno) ma va pur detto che tra di essi figurano personaggi della levatura di un Padre Brucculeri e di un Michele Federico Sciacca, di un Vito d'Ondes Reggio e di un Padre Tapparelli D'Azeglio, di un Nicola Spedalieri e di un Domenico Fisichella, di un Julius Evola e di un Emanuele Samek Lodovici (il rivelatore di quella metamorfosi della gnosi che Don Ennio Innocenti ha smascherato come Gnosi spuria e che inganna, oggi, anche intelletti e spiriti non in mala fede), per andare ad un Nicolò Rodolico, a un Giuseppe Tricoli, a un Gaetano Falzone, intellettuali versati nelle discipline più diverse e di differenti impostazioni culturali, ma aventi in comune – come opportunamente precisa il Curatore dell'opera – la “posizione favorevole al Diritto Naturale e critica nei confronti della modernità”, in una tesi, ammette Tommaso Romano, “sicuramente ardua, anche metodologicamente, ma chiara negli assunti e nelle proposte per una insorgenza interiore, prima di tutto spirituale e intellettuale e morale, che parta appunto da una revisione profonda, intima, soggettiva per poi essere in grado di irradiarsi come cultura e azione, anche storica, civile e politica, nel senso più alto del termine” e contrastare, ancora e più che mai, la “crescente crisi di valori, di identità e di senso, che caratterizza il  mondo moderno e la sua logica”. Una logica che, scrisse benissimo padre Cornelio Fabro, “si rovescia in umiliazione della ragione, incapace di raggiungere qualunque certezza del sapere, ridotta al nulla dal dubbio radicale e assoluto” che la ispira. Irretito in tale incapacitante e contradditoriamente totalitario relativismo, “perso il Timor di Dio, l'uomo contemporaneo non vuole neppure, ormai – è ancora Tommaso Romano a farlo notare – farsi Dio, ma annullarsi nell'insignificanza, annegare nel non-senso, nell'ovvio, verso una sorta di trasformazione antropologica” di un uomo, che pretende di poter vivere nella completa assenza di Dio”.         
            Eppure, ci ricordava Papa Benedetto, quando era, semplicemente, il Cardinale Ratzinger, “Quaerere Deum – cercare Dio - e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura”.
            A questo punto, pur riconoscendo gli indubbi benefici materiali che la modernità ha portato,  si è tentati di dire, con Voegelin, che “la morte dello spirito è il prezzo del progresso”. In qualche misura sembra un fatto che non si può negare. Ma occorre anche ammettere che ben venga il progresso con tutti i suoi benefici, purché si riesca a non lasciar soffocare lo spirito. È un compito a cui si può – si deve – dedicare la vita. Come hanno fatto questi Nostri Maggiori. E se siamo qui a leggere e disquisire di tutto ciò, forse, c'è ancora speranza.

mercoledì 31 agosto 2016

Tommaso Romano, "Tempo dorato" (Ed. Quanat)

di Giuseppe Saja


Leggendo le opere di Tommaso Romano, soprattutto quelle saggistiche, ho avuto sempre conferma del fatto che di un intellettuale ‘onesto’ possiamo non condividere l’ideologia di fondo o, come dire, i principi della sua weltanschauung; ma ci si può ritrovare ad approvarne alcune letture dell’esistenza e dell’esistente, in forza di quella capacità, che appunto solo gli intellettuali ‘onesti’ hanno, di mettersi in discussione, di riconsiderare assunti precedenti, di proporre analisi, guidati non già da apodittiche e sterili acquisizioni, ma da un sapere in fieri, che alimenta quella qualità, ahimè ormai così rara e preziosa: il buonsenso, abissalmente lontano dal senso comune, da quelle pseudo verità ovvie, banali, frutto di poco pensiero e ancor più limitata meditazione. Ecco perché, anche se piuttosto lontano dal conservatorismo, sia pure illuminato, di Romano, mi ritrovo spesso nelle sue osservazioni, nei suoi giudizi sulla società dei nostri giorni, nel suo modo di renderli pubblici attraverso i versi di una poesia o la scrittura saggistica. E poi, le letture, diciamo, di destra, che in questo volume Romano presenta, ad esempio del Sessantotto, si avvicinano, certo non coincidendo, alle considerazioni e alle critiche che dal mondo della sinistra meno radicale ormai sullo stesso periodo si propongono. Certo, è riconoscibile l’ironico imprinting ideologico di affermazioni come questa: «Non amai i simboli lontani di guerriglieri sudamericani, né la barba del profeta di Treviri, né la “rivoluzione di Mao. La mia generazione in gran parte s’illuse di stare con il senso della storia. Gli speculatori di sogni e di utopie stettero al gioco»; ma non possiamo non essere d’accordo con le parole riguardanti la lebbra della mafia, devastante a partire dagli anni Settanta del secolo scorso: «La morte a Palermo divenne regola amara. Non solo i regolamenti di conti fra i clan; ma persino i delitti eccellenti. Una lunga teoria di lutti. Molta retorica, pochi fatti alternativi». Non mi sono sorpreso, come non lo è stato il prefatore del volumetto Tempo dorato, Matteo Collura, che Romano abbia voluto ricomporre, tra edito e inedito, gli scritti più ‘narrativi’ della sua produzione, poiché pure essi vengono alimentati, e non potrebbe essere altrimenti, dai fiumi tutt’altro che carsici, anzi ariosamente impetuosi e prolifici, della sua vena lirica e di quella saggistica. Quelle due fonti trovano una felice sintesi in questo volume autobiografico, una misura che dimostra, come avvertito anche da Collura, evidenti capacità di narratore, di affabulatore della parole scritta, di sapiente manutentore del vocabolario, per dirla con un’espressione del mai troppo ricordato Antonio Castelli. È mia abitudine nel leggere un libro, e non solo quando devo scriverne o parlarne, annotare nelle ultime pagine bianche o “macchiate” dalle indicazioni di stampa, l’antico colophon, le frasi, i concetti, le espressioni per me notevoli, le suggestioni che ne nascono, anche le citazioni esplicite o implicite da altri scrittori o poeti: è un sondare il laboratorio creativo di un autore nel tentativo di scandagliare i livelli via via più profondi del suo lavoro. Ecco, nel fare questo con il volume di Tommaso Romano, mi sono reso presto conto di stare annotando praticamente quasi ogni pagina: non mi succede spesso e credo che ciò sia avvenuto per i contenuti coinvolgenti del volume e per le forme distese che li assecondano, per quel piacere del raccontare e del raccontarsi, per dirla con il sottotitolo. Intanto, quello che colpisce è la capacità di ricreare un’atmosfera, un ambiente, una situazione, un personaggio con poche pennellate di parole, che hanno spesso una pensosa densità anche a dispetto della loro carica connotativa; poi l’abilità di fare riaffiorare nostalgicamente, ma senza cedimenti patetici, quella Palermo d’antan, deturpata dalle esecrabili trasformazioni che subì già agli inizi del “sacco”, che ne cambierà i connotati, lasciando solo vaghi, sparuti e immobili ‘fercoli’ della sua anima liberty. Quel trapasso coincise, in qualche modo, con i riti di passaggio dell’uomo Romano dalla fanciullezza, soprattutto, all’adolescenza e poi alla maturità: dal tentativo, coronato dal successo grazie ad una superiore complessione fisica, del dodicenne Tommaso di guadagnare l’ingresso del cinema “Corallo” per vedere un film vietato ai minori di quattordici anni, alla ‘conquista’, avvenuta a tredici anni, dei “calzoni lunghi”, precedute, entrambe le esperienze, dai primi turbamenti, non proprio amori ancillari, che già a sette anni il nostro ebbe modo di provare, in compagnia di alcuni coetanei, nell’ammirare di nascosto le nude grazie della giovane e bella cameriera della nonna in Contrada Muffoletto a San Cipirrello (Palermo). Ma il volumetto è soprattutto la storia di una precoce maturazione culturale e intellettuale avvenuta sotto le ali delle predilezioni poetiche: il Futurismo soprattutto e autori quali Nietzsche ed Evola, poi rivisitati in modo personale. Un apprendistato intellettuale, dunque, che influenzerà le scelte politiche di Romano, facendone un amministratore atipico, poco legato alle poltrone, pronto a mettersi da parte quando i suoi mandati avrebbero dovuto mantenersi a prezzo di inaccettabili compromessi. Dunque, con assoluta padronanza dei mezzi espressivi, Romano incrocia dati memoriali con analisi coscienziali ed eventi socio-politici, e con la sapienza di un regista cinematografico (dalla decima musa egli attinge alcune formalizzazioni dei suoi ricordi) riesce a intersecare interni di famiglia con le vicende più significative della storia, non solo isolana, della seconda metà del secolo scorso. Quei quadri di vita, quelle aperture memoriali incardinano episodi e situazioni intorno ai valori che Romano riconobbe e riconosce fondanti, la famiglia su tutti. E allora, il “tempo dorato” delle lunghe vacanze estive alla scoperta del mondo, i bagni negli stabilimenti palermitani di Romagnolo, prima che Mondello assurgesse agli onori delle cronache balneari, le visioni cinematografiche domenicali precedute dalle passeggiate in una Palermo non ancora devastata dal cemento e dall’abusivismo, rompono i confini dei ricordi personali e ci consegnano le maliose immagini di una città, neanche troppo lontane, che lasciano, soprattutto a chi quei tempi non ha vissuti, la percezione di un ritmo di vita diverso, di un’essenzialità dell’esistere pur nelle differenze di censo e di possibilità sociali, una ciclicità biologica e non meccanica, anonima, disumanante. Sono cartoline non oleografiche, quelle che Romano ci propone con un certo sapore vintage, con quelle tonalità pastello che si ravvivano quando l’ectoplasma del ricordo viene attraversato dalla lama tagliente della ragione. Su tutto, si accampano alcuni personaggi indimenticabili, sapientemente cesellati con il bulino di una scrittura che chiama a raccolta tutto il mestiere e le competenze sin qui accumulate. Sono personaggi e non caratteri quelli che l’autore fa materializzare, che prendono vita dalla nebulosa della memoria per presentarsi ai lettori con tutta la loro umanità non convenzionale, con le loro stranezze e peculiarità: come dimenticare la “zia Maria”, al secolo Maria Randazzo, attrice non di fama, come ci ricorda Romano, ma che la sua passione onnivora per il teatro riuscì a trasmettere a Palermo a tante generazioni per tutto il Novecento; o Don Peppinello, improvvisato quanto improbabile automedonte, che riusciva a rendere periclitanti ma avventurosi i viaggi più tranquilli e potenzialmente rilassanti. Romano ci propone le prime “Epoche”, per dirla con Alfieri, della sua autobiografia; nel senso che volutamente egli ha ordinato i primi ricordi d’infanzia e d’adolescenza, fermandosi sulle soglie della maturità e dunque all’età delle responsabilità personali e pubbliche; ma questa, come si suole dire, è un’altra storia, che forse in seguito verrà raccontata.

giovedì 30 giugno 2016

Leggere i segni dei tempi per non “sciupare la crisi”

di Arturo Donati



Con la sintetica e intensa ricognizione problematica sul senso del viatico terrestre e degli atteggiamenti conseguenti al continuo depauperamento della visione del mondo, Tommaso Romano ci offre una matura riflessione ricca di spunti che contribuiscono ad aprire feritoie sul velo dei luoghi comuni del giudizio.
Infatti il giudizio corrente sulla crisi è sovente ammantato di catastrofismo e di superficiale accondiscendenza sia alle insorgenze reazionarie che al grave progressismo antropologico, sovente dimentico della inviolabilità unitaria della cifra umana.
Gli orientamenti prevalenti dell’immaginario sociale a noi più vicino, in ultima analisi confermano e rimarcano ulteriormente la deprivazione spirituale del nostro tempo che meriterebbe una complessa ed ampia indagine. Infatti In premessa l’autore presenta la sua raccolta di saggi brevi come un semplice contributo per la valutazione critica dei fenomeni antropologici oggi evidenti. Ne “L’Apocalisse e la gloria” Tommaso Romano sviluppa così una disamina argomentativa scevra di qualsiasi perentorietà fuori misura e senza tentare scorciatoie rimarca e perimetra tratti essenziali della dimensione della crisi alla cui consapevolezza nessuno dovrebbe sottrarsi.
Nonostante la brevità dei testi, realizza egregiamente il suo proposito con la chiarezza dell’onestà intellettuale che contraddistingue l’utopista che ha seguito davvero un percorso di conversione personale che lo ha condotto dalle iniziali sfere dell’idealità mai tradita a quelle del sacro custodito dalla Parola.
In primo luogo il tempo presente è caratterizzato dalla frequente elusione intenzionale della responsabilità individuale che viene facilmente derubricata dagli assiomi del giusto vivere. Tale deriva, gravida di deleteri effetti, sempre più evidenti, andrebbe ricondotta alla diretta conseguenza del rifiuto ideologico di qualsiasi teleologia. Rifiuto che mira a escludere ogni fede in un ordine superiore che possa inficiare l’ideologia dominante della socialità astratta che trova facile rispondenza nella vulgata dei luoghi comuni.
Invece secondo ogni spiritualista la socialità astratta essendo priva di qualsiasi cultura dell’essenza, è destinata ad essere prima o poi confusa se non barattata con l’aspirazione al dominio degli eventi quotidiani, quindi con il potere. Tommaso Romano riesce anche a far notare quanto sia negata dal laicismo autoreferenziale la necessità di un’analisi ponderata della tipologia della crisi attuale che è riconducibile principalmente alla visione antispecista dell’uomo.
Allora oggi più che in alti tempi urge e necessita pacatezza e coraggioso equilibrio nel giudizio. Tale preoccupazione è dettata dal discernimento cristiano. Infatti anche se il senso della decadenza degli autentici contenuti di relazione, senza i quali l’uomo non può definirsi tale, è certamente palese di contro la semplicistica valutazione etica su basi relativistiche dell’agire è perdente. La critica, quando avulsa da qualsiasi fondamento dottrinario e ancor più gravemente se insidiata dal comparativo etologico, non genera giudizi piuttosto generalizzazioni anche gravi.
Giudizi acritici che paradossalmente ledono la dimensione spirituale dell’uomo che proprio l’indignazione per il suo offuscamento intenderebbe al contrario proteggere. Secondo Tommaso Romano la saggezza, anche se esercitabili
e in forme limitate o in oasirelazionaali ristrette, può e deve ritornare ad essere un traguardo possibile Ogni tempo infatti offre allo spiritualista la possibilità di accedere ai linguaggi del profondo e di riedificare un senso dell’uomo. Senso da recuperare nella prassi storica, nella vita concreta e contraddittoria per quanto e nonostante il quotidiano induca i più alla rassegnata “lettura orizzontale” del valore simbolico degli eventi. Tommaso Romano si fa forte della lezione fondamentale di Romano Guardini che ha presentito la necessità antropologica di nutrirsi dei segni del divino che donano la possibilità di scoprire come ogni età della vita, che al contempo è sensibilità, utopia, potenza e caduta, di fatto sia teatro dell’incarnazione della spiritualità che sopravvive ai declini e ai ritorni. Una ciclicità che è storica in quanto spirituale così come per Vico, appropriatamente più volte richiamato nello scritto, è spirituale perché storica. Una storicità che non dissipa totalmente i doni dello spirito perchè mai lo potrebbe. Per il Nostro la lezione vichiana rassicura sulla riproposizione della possibilità di ricondurre al singolo la prodigiosa riscoperta del sacro dono della vita. L’uomo nuovo di Tommaso Romano, adombrato nelle brevi pagine che lasciano il segno, si configura come un fiero frammento dell’infinità cosmica.
Per quanto disorientato, l’individuo può maggiormente resistere se la sua forza nasce dalla critica del formalismo dell’agire quando avulso dalla fiducia nella presenza dello spirito. Il divino ci guida comunque e nonostante tutto in ogni istante dello scenario terrestre anche quando appare il tempo in cui “tutto finisce”. Leggere nei segni della fine non il fallimento delle illusioni quanto la prossimità della Parusia che riconcilia l’essere e la vita, la giustizia e l’amore. E’in questa prospettiva che va operata una rivendicazione dei valori non ideologica nè tantomeno nostalgica, in forza della saggezza e dei sodalizi ancora possibili. La critica di Tommaso Romano è e resta costruttiva poiché consente il recupero della preoccupazione per l’uomo pur nella lapidaria invariabilità del giudizio morale di fondo che ove necessario va espresso senza sè e senza ma e ricondotto alla finalità dell’esistenza.
Essa non è completamente tutelata né dalla legge convenzionale né da quella naturale piuttosto dal valore cosmico della presenza umana all’interno delle teofanie dell’essere. Per il cristiano problematico ma non problematicista, l’uomo è, e deve sforzarsi di restare, in prima istanza il custode individuale della legge dell’amore. Certamente non del processo amorevole del fondamento delle intenzioni che possono essere per ingenuità o malafede tradite e subordinate a esigenze materiali ammantate di falsa etica relativistica. Non a caso con chiarezza il Nostro precisa che: “L’unicità dell’uomo nel cosmo è frutto di uno statuto tutto proprio dato da Dio … L’anima individuale fa parte dello spirito cosmico…”
Romano riesce in forza di tale assioma a distinguere la rassegnazione ad accettare i limiti oggettivi del nostro operare, dal grave declino della visione del mondo verso l’accomodamento minimalista spacciato ideologicamente per principio di realtà. Per altro verso l’ipocrisia contemporanea si manifesta con le gravi alterazioni dei linguaggi.
In primis quello liturgico e quello della sfera del diritto, debolezze che assimilano gli accomodamenti imposti da un’etica di basso profilo all’ideologia maggioritaria spacciata per solidarietà sociale. Il nostro tempo registra infatti l’insorgenza di una nuova figura cara all’immaginario sociale, quella dei buoni e dei moralizzatori di professione. Per Romano le distorsioni vanno denunciate con chiarezza senza indire crociate riequilibratici di una impossibile verità assoluta la cui difesa ad oltranza e ad ogni costo, in ultima analisi risulterebbe gravemente lesiva della stessa sfera valoriale che si intenderebbe salvaguardare.
Tommaso Romano ricorre ancora una volta, al suo cristocentrismo spirituale in chiave cosmico-teleologica per proporre una semplice ma non semplicistica metodologia di analisi della pochezza umana al fine di rivendicare l’eterna possibilità concessaci dal Santo spirito di ritrovare comunque vie d’uscita significative alle condizioni che ci affliggono. Un ristoro della libertà, una luce per orientarci negli spazi ristretti dell’agire asfittico delle coscienze anestetizzate dal quotidiano amorfo (perché modale quindi senza stile) e sempre più de spiritualizzato.
Fondamentale a questo punto la rivendicazione delle possibilità reattive ed esemplari insite nella risorsa individuale e nel sodalizio delle coniugazioni umane vincolate dall’invisibile trama che si tesse con l’ascolto della Parola. Con l’ausilio della riflessione senza censura che aspira non al giudizio ma alla saggezza che è sostanzialmente giustizia nel rispetto primario della vita. Non a caso alcune afferenze alla lezione profonda e problematica del miglior Evola echeggiano in alcuni tratti dell’analisi di Romano che rifiuta il “vago sentimentalismo consolatorio”.
Altrettanto condivisibile, a parere dello scrivente, il ridimensionamento delle aspettative ingenerate dal Concilio Ecumenico Vaticano II e delle estemporanee critiche reattive allo stesso, fermo restando il bisogno del Nostro di criticare i processi di secolarizzazione eccessivi senza sminuire del tutto la stessa funzione della Chiesa Cattolica. Essa resta comunque responsabile di mancanza di chiarezza e di non dipanare le compiacenze verso un “cristismo” opinato a misura delle esigenze dell’immaginario contemporaneo che divinizza le virtù non subordinandole alla Verità Assoluta. Verità che se posta al centro dell’anelito umano restituisce ascendenza divina a tutte le qualità vertiginose che sono e restano segno della possibilità di tensione verso le altezze anche al tempo della fine.
Una fine della condizione terrestre e di tutti i criteri di relazione umana tentati o codificati, che non siano da leggere come il definitivo declino della coniugazione antropologica di natura e spirito, piuttosto in chiave di primi albori della Parusia, di propedeutica all’Apocalisse che è rivelazione della piena volontà divina. La stessa che ci ha imposto di esistere per scoprire nel nostro piccolo, a prescindere da qualsiasi livello di secolarizzazione, l’amorevole e misterica cifra di appartenenza all’entropia spirituale dell’Eterno.
Soltanto l’Eterno ci impone il coraggio di rifiutare “l’umanizzazione presunta”, massificata e massificante al sevizio dei poteri e delle tentazioni terrestri che esaltano una vaga libertà senza spirito, quindi il nulla, per negare la trascendenza.

Pur se fortemente distratti dalla visione cui siamo stati destinati è possibile a tutti uno scatto di coscienza quale ultima salvaguardia, alla fine dei tempi, prima che il vincolo tra l’umano e il divino che siamo chiamati a scoprire possa essere sciupato: “Badate a voi stessi perché….quel giorno non vi venga addosso all’improvviso come un laccio”. (Luca 21. 31,34)

lunedì 20 giugno 2016

Franco Trifuoggi, "La poesia di Tommaso Romano" (Ed. I quaderni di Arenaria)

di Giovanni Taibi

Un interessante viaggio intorno e dentro la poetica di Tommaso Romano è quello che compie il prolifico scrittore e critico letterario Franco Trifuoggi nel suo approfondito e puntuale saggio “La Poesia di Tommaso Romano” edito da Ila Palma ( 2013).
Da una analisi filologicamente attenta dei testi dell’autore palermitano, Trifuoggi traccia una linea ideale lungo cui scorre la poesia di Romano che, seguendo una direzione metafisica, manifesta tutto il suo desiderio di eterno e diventa viatico alla scoperta dell’assoluto.
L’indagine critica di Trifuoggi inizia sin dagli albori della poesia di Romano, da quelle prime Rime Sparse del 1969, in cui in nuce già si intravvedevano i primo germogli di una poesia che, seppur non distaccata dalle suggestioni futuriste marinettiane, manteneva saldo il rigore formale e la chiarezza del dettato poetico della grande tradizione letteraria italiana.
D’altronde per il nostro futurismo e tradizione non sono mai state in antitesi, anzi come spesso afferma: “più profonde sono le radici più l’albero potrà svilupparsi in altezza.”
Trifuoggi scava a fondo nella poesia di Romano e ne evidenzia gli influssi filosofici e letterari in essa presenti: da Aristotele agli esistenzialisti senza dimenticare la lezione storicistica di Vico e dei grandi autori spiritualisti e di quelli più intimisti da Petrarca a sant’Agostino.
 La sua è certamente una poesia impegnata mai semplice momento di disincanto. Il suo poeta è un anacoreta che però non fugge la realtà ma la richiama in ogni sfumatura per esaltarla a momento poetico da ricordare e condividere.
Una realtà spesso grigia da cui il nostro riesce a sottrarsi grazie a visioni di montaliana memoria che “donano al poeta pause liberatorie e suscitano immagini di vita affrancate da cure tormentose” ( Cfr pag. 35 )
Quello di Trifuoggi è un libro la cui trama è intessuta, o meglio integrata,  da citazione attinte a piena mani dalle liriche di Tommaso Romano che vengono inserite come un tutt’uno del discorso filologico che sviluppato con non comune perizia esegetica. È una perfetta simbiosi quindi quella che viene fuori dalle note critiche del Trifuoggi e dai frequenti richiami alla “Parola” di Tommaso Romano.
Il Romano intimo è quello che scalda più il cuore di Trifuoggi, in cui prendono corpo e dimensione luoghi e figure care al poeta del presente ma soprattutto del passato come nella delicata lirica dedicata ala padre: “In attesa del bel rivederti”.
 Sono queste le liriche ritenute più ispirate nelle quali prevale la “luce della religiosità” ammirata anche  dal celebre critico Mario Sansone.     
Quella di Romano è una poesia che si rinnova in itinere nel confronto col passato e con la quotidianità a volte routinaria e prosaica, che comunque Romano sa giudicare con il distacco di chi conosce il senso dell’inarrestabile flusso dell’esistenza. Una vita contempl-attiva in cui la ricerca di un senso travalica lo stesso reale che diventa segno o cosa di platoniana memoria.  

sabato 11 giugno 2016

Tommaso Romano, "Café de Maistre" (Ed. ISSPE)

di Guglielmo Peralta

      L'introduzione di Tommaso Romano al suo "Café De Maistre" si apre con la descrizione del locale panormita, degli "arredi originali e tirati a lucido" ispirati all'Art Nouveau e si chiude con la velata esortazione a lottare contro la decadenza culturale e morale della società contemporanea per "dare un senso autentico" al nostro essere nel mondo. L'eleganza del Liberty o dello stile floreale contrasta con tale decadenza, che non è più soltanto "Il tramonto dell'occidente", annunciato da Oswald Spengler nella sua opera (1918-1922), ma il declino della civiltà a livello mondiale, che sembra preludere al "suicidio dell'uomo" dopo la morte di Dio. Il contrasto si risolve nel bisogno di Romano di trovare "un rifugio elegante all'inclemenza del tempo", sicché il Café De Maistre, la sua eleganza, è metafora della bellezza e, perciò, esso è un "luogo elitario", ideale per la contemplazione e per ritrovare la pace interiore; è un "chiostro" dove meditare e ricercare la Verità "in laboriosa solitudine", lontano dai "volgari" e dalla mondanità. Il crollo dei valori morali, la desacralizzazione della Tradizione, l'indebolimento della Fede e del pensiero libero, sostituito sempre di più dal "libero pensiero" e dalla "dittatura del pensiero unico", devono sollecitare alla lotta contro il male, a "resistere" categoricamente, "individualmente, lucidamente" contro l'annichilimento e l'Apocalisse già in atto. È questo il magistero di Romano, il quale, animato dalla cultura dello spirito, leva alta la sua voce confortato da mentori quali Platone, Tommaso d'Aquino, Vico. Altri Personaggi-guida, incontrati in carne ed ossa o frequentati soltanto attraverso le opere negli anni di studio, nel suo cammino di formazione intellettuale e culturale, sono presenti in questa raccolta di perle di saggezza, dove non mancano, accanto ai quadri di pensiero, alla riflessione profonda su temi di teologia, filosofia, pedagogia, storia, letteratura, arte, le numerose invettive, tra cui quella contro il cieco conformismo di chi approva "tutto ciò che è progressivo, funzionalista e, quindi, moderno", quella contro i "poteri ideologici degli orientatori dei comportamenti della comunicazione e della pubblicità", quella contro il centralismo e il totalitarismo riformistico della scuola.
      Mi sembra che il cuore di questo Café De Maistre sia da ricercare in quella dimensione del "mosaicosmo" in cui è venuto a strutturarsi il pensiero di Romano, da quando egli è rimasto folgorato dalla felice intuizione dalla quale è nato il neologismo e che si è nel tempo evoluta fino alla contemplazione di quella visione cosmica, di quel mosaico, appunto, che ogni umano individuo contribuisce a comporre con la propria attività creatrice, o anche solo con il proprio esserci, e del quale è parte integrante e necessaria. In questa unione ideale di tutti gli uomini sembra realizzarsi quel principio della fratellanza universale che è disegno divino e motivo di salvezza. È questo un pensiero che ha nell'arte la sua culla e la sua ascesa e che si oppone allo svuotamento spirituale e al vuoto religioso segnato dall'assenza, o meglio, dalla non-presenza di Dio, al quale tuttavia - sottolinea Romano - bisogna restare fedeli, e il quale è da cercare proprio nel tempo della sua lontananza e della più grande povertà dell'uomo. Rafforzare la fede ancorandola in Cristo "è e sarebbe la via maestra" contro l'Apocalisse, per porre fine a questi tempi oscuri e "prepararci all'Evento soprannaturale della Parusia, al ritorno di Cristo in terra". Tessere preziose di quel "mosaico" sono, qui, Personaggi quali - ne cito solo alcuni - Divo Barsotti, Padre Giuseppe Rizzo, Lucio Zinna, Giovanni Volpe, Giovanni Gentile, Alessio Di Giovanni, Lucio Piccolo, Mario Luzi...che Romano ritrae negli aspetti che più li caratterizzano e dei quali lascia emanare la "Luce del pensiero" (già titolo, questo, di grande fascino, di un progetto culturale da lui ideato e concretizzatosi con la pubblicazione di sei volumi contenenti schede biografiche di autori tutti rigorosamente siciliani). Insieme, questi Personaggi, costituiscono una grande biografia dell'anima nella quale emerge, in trasparenza, lo stesso profilo di Romano avendo egli in comune con loro il medesimo cammino spirituale in direzione della ricerca di verità e di senso. Ed è forte, nel Nostro, l'esigenza di ristabilire e fare conoscere la verità là dove essa è manipolata, "truccata", distorta per risentimento o per motivi, spesso, ideologico-religiosi. Così, ad esempio, egli rende nota la rivisitazione della "Storia dei musulmani di Sicilia" di Michele Amari, da parte dello storico francese Henri Bresc, secondo il quale "il più che positivo giudizio" espresso dall'autore siciliano sui dominatori arabi e la "mitizzazione dell'Islam, visto come regno della perfezione" non sarebbero corretti perché frutto, probabilmente, della "passionalità" e delle "visioni romantiche" dell'Amari. Altro esempio di verità ristabilita riguarda una celebrata ottava di un canto popolare grandemente offensiva e infamante nei confronti dei Savoia e che Alessio Di Giovanni, nel suo articolo: Un'allusione alla Casa Savoia in un pseudo canto popolare siciliano, dimostra trattarsi di un falso storico. Se la pura e semplice verità è tradita e falsificata per futili motivi, per risentimenti, per meschine vendette, la Verità, quella che nel nome del Cristo ci è stata rivelata, è sempre più obliata e rinnegata, con la grave conseguenza della perdita della coscienza morale e del limite della libertà. "Tutto allora sarà, come in effetti è, permesso. Anche di ammazzare in nome di un dio, dell'onnipotenza umana o della dea ragione". E qui non possiamo non ricordare Ivan Karamazov, il quale afferma che "se Dio non esiste, tutto è permesso" e sottolinea lo stretto legame fra la negazione di Dio e la divinizzazione dell'uomo. Senza l'amore della verità l'eclissi dei valori, già in atto, sarà totale e inevitabile e la salvezza impossibile, perché con la perdita del sacro e del senso di Dio si perderà anche il senso dell'uomo. Nella prima domanda, posta da Romano a Mario Luzi nell'intervista inedita del 1989, è indicata, sia pure in modo sotteso, l'unica via da seguire per risollevarsi da tanta decadenza, per uscire dal tunnel infernale e tornare "a riveder le stelle". E la guida non può che essere la poesia, come essa lo fu di Dante nella figura di Virgilio, simbolo della saggezza poetica. La domanda è la seguente: "C'è la possibilità di una rinascita di una poesia ancorata ai valori, per così dire, forti?" È innegabile che la poesia sia il valore assoluto da riscoprire e praticare per conquistare l'amore della verità che, a detta di Sant'Agostino, è "il primo dei precetti, il sommo genere, il fonte di tutti". E dunque, amare la verità "è amare e desiderare il bene morale". Ristabilire il legame tra poesia e verità è quanto suggerisce Luzi nel preannunziare una "motivazione etica e religiosa (...) una richiesta di una poesia religiosa di "annuncio", oltre che di denuncia", nella convinzione che "la poesia ha la forza di progettare l'uomo futuro e di indicarlo anche alla scienza, che ha il compito di restituirlo a se stesso".
      La poesia è la risposta alla civiltà tecnologica, che ha fagocitato ragione e sentimento estromettendo l'uomo dalla sfera del sacro e della spiritualità generando l'individualismo che,  secondo Charles Taylor, è il maggiore dei mali della nostra società, la causa di quello che egli chiama “Il disagio della modernità”, ossia, la perdita dell'essenza umana, la chiusura verso l'altro,    l'oblio della socialità, che hanno il loro contrassegno nella ricerca del successo, dell'approvazione, nel distinguersi ad ogni costo dagli altri, nel narcisismo egoistico. Contro questa tendenza suicida, contro questo vivere inessenziale, Romano ci ricorda, citando Heidegger, che "la poesia è un modo di vivere" più autentico nel "tempo della povertà". Ed è nella presa di coscienza di questo "disagio", sempre più esteso all'intero consesso umano, che cresce il bisogno di senso e acquista valore veritativo l'ideale del "mosaicosmo", di cui Café De Maistre è un riverbero e una tessera ed è un micromosaico dell'immensa biblioteca spirituale in cui si inseriscono, si corrispondono, si riflettono infinite visioni: mondi e modi diversi di un pensiero unico e universale.