venerdì 23 giugno 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Il fecondo e competente Autore nella Premessa, puntualizza come scrivere e pubblicare “un libro come questo è sempre un rischio e un azzardo” e più avanti, evidenziandone lo scopo, aggiunge: «L’obiettivo del testo è indicare ciò che è considerato inattuale e scorretto rispetto ai tempi che viviamo, propriamente per sottolineare la sempre permanente concezione di Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, intesi come segno e consapevolezza di Stile, per una risvegliata coscienza d’affinamento e qualificazione del soggetto, di Distinzione appunto, rispetto a tutto ciò che è, invece, conforme, standardizzato, massificato nel singolo e nel processo abbrutente informe come drammaticamente avviene nella società del nostro tempo». Dobbiamo riconoscere quanto non abbia torto e, allo stesso tempo, sappia cogliere quasi tutti gli aspetti antropologici e sociologici che osserviamo ogni giorno, rispetto ad una società che idealizza e strumentalizza sempre di più valori e concetti che, continuano invece ad adagiarla, per non dire a seppellirla, in una forma di narcotizzazione totale e generale.  
Sono cambiati i tempi o gli uomini? Verrebbe da chiedersi! La modesta conclusione sarebbe quella di affermare umilmente: tutti e due! Eppure pare strano e controverso come l’uomo moderno, quello del secolo Ventunesimo, che dimostra di aver raggiunto vette inspiegabili, abbia modificato profondamente il senso di giudizio, quello obiettivo di considerare ancora ciò che è valore, quello che è merito e quanto possa esistere di negativo dentro se stesso e nei confronti degli altri. Sembrerebbe che i parametri di giudizio e di raffronto siano scomparsi; annullati in un qualunquismo che viene paventato per uguaglianza che non si avvicina per niente al senso di fratellanza e dove tutto dovrebbe essere posto sopra una bilancia che pende inesorabilmente da una parte e verso l’altra senza alcuna ragione, senza nessuna motivazione o ponderazione interiore. Verrebbe da pensare che l’uomo in generale sia sottoposto ad una narcotizzazione costante che lo rende sopito, adagiato e demotivato a risvegliarsi da un sonno che, a lungo andare, potrebbe annientarlo.
Scrive Publio Ovidio Nasone – (43 a. C. -18ca d. C.) – poeta latino, letterato di successo nato a Sulmona (AQ): «Laudamus veteres, sed nostris utimur annis, / Mos tamen est aeque dignus uterque coli», lodiamo pure gli uomini del passato, ma viviamo ugualmente la vita dei nostri giorni; tanto i costumi antichi come quelli moderni sono ugualmente degni di rispetto ma non dobbiamo però dimenticarci degli insegnamenti che da questi ci provengono. In mezzo a tanti ammaestramenti avremmo bisogno di riscoprirne non solamente il valore ma anche saperne e discernere il reale merito, che il più delle volte sfugge, lasciando spazio sì a quelli nuovi ma se sappiamo crearne alcuni attuali, dovremmo rivalutare anche quelli trasmessici da un passato che invece cerchiamo di abbandonare come non fosse mai esistito o, peggio ancora, facendo del revisionismo inutile, che talvolta sembra più ispirato da preconcetti, demagogie o per paura di sembrare obsoleti. Il nostro stimato Autore si è posto sicuramente non soltanto questi interrogativi e li ha sviscerati, presentandoli con una chiarezza disarmante e, allo stesso tempo, cogliendone quegli aspetti che si vorrebbero far passare per superati; per non dire da cancellare dalla mente dell’uomo razionale e pensante.
Se “la dignità è di tutti e per tutti”, prosegue Tommaso Romano, dobbiamo inequivocabilmente «Tornare all’equilibrio e all’equità vera, alla sostanzialità del linguaggio, come ha insegnato Attilio Mordini, sono fonti necessarie per ristabilire e ridare qualità e organicità al corpo sociale, rivalutando, vivificandole, le naturali gerarchie dalla dimensione asfittica che viviamo, piuttosto che isterilire del tutto, in una prospettiva virtuosa di miglioramento, realmente aperta, facendoci uscire, se solo lo si decidesse, dall’uniforme e non divenendo pedine forse inconsapevoli, strumenti di “élite” oligarchiche e dirigiste che impongono e orientano gusti, opinioni, costumi, mode, oltre che l’economia, la politica e lo stesso diritto, in nome di una astratta e falsa libertà». Ci trova totalmente d’accordo, il carissimo Tommaso, senza essere eccessivamente retorici e tantomeno pedanti.
Il volume corposamente sostanziato nella parte del Florilegio, trova culmine e riscontro nel Saggio di Amadeo-Martin Rey y Cabieses. Avvalendosi della elevata forma stilistica ed espressiva che, da sempre, contraddistingue il nostro Autore siciliano, si completa nella elegante e suggestiva veste editoriale, in parte in bianco e nero, nell’altra a colori, dove fra diversi Enti e Associazioni che hanno concesso il Patrocinio Morale, figura anche il simbolo della nostra antica Accademia Collegio e un mio breve pensiero sull’argomento.

Vogliamo rassicurare il carissimo amico Tommaso Romano che il paventato rischio non solamente ha fatto perdere efficacia all’azzardo paventato, ma ha abbattuto tutti quegli assurdi preconcetti che, riuscendo a essere camuffati da attualità, rendono l’uomo dei nostri tempi sempre più schiavo di se stesso e di quel voler essere diverso, scadendo invece in qualunquismo che sembrerebbe più deleterio che produttore di progresso e cultura. Quindi, per terminare con parole semplici: ottimo lavoro! Ci auguriamo, ora, che possa contribuire a rifare l’uomo dei nostri tempi.

lunedì 19 giugno 2017

Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Giuseppe Bagnasco

Ed ecco trovarci ancora a leggere i pensieri di quell’Anacoreta occulto che ormai con animo ascetico guarda il disfacimento della società da quel luogo che nato come Eremo è diventato il suo Regno dei Cieli . Il poemetto, edizione all’Insegna dell’Ippogrifo, San Cipirello 2017, dopo l’ecclesiale introduzione di Salvatore Lo Bue, si apre al lettore d’impeto, nemmeno il tempo di una iniziale intitolazione, come verosimilmente accaduto, sgorgando quasi di getto dalle inesauribili vene filosofiche e pseudo razionali di quel Sovrano che risponde al nome di Tommaso Romano.
       L’Autore, districandosi tra i ricordi del Tempo dorato che fu e le odierne-antiche strade di Montevergini e Albergheria fino a quelle di Borgo e Serradifalco, finisce per  rifugiarsi quasi come un clandestino nel suo “Tempio” da dove, con volitiva e sofferta insularità, medita e dispensa con sorniona ironia, il suo dettato chiedendosi verso chi possa essere indirizzato quel flusso di pensiero veritativo che scaturisce imperterrito dal suo spirito liberante. E ironicamente, passo-passo esamina tutti i fallimenti registrati dal nostro Occidente nell’arco di duemila anni, siano essi appartenenti al dettato cristiano, a cominciare da quell’ Ama il prossimo tuo, a finire a quello laico-sociale dove le rivoluzioni storiche che dovevano affrancare l’uomo, sono alla fine approdate di fatto nelle mani di oligarchi senza bandiera i quali, incapaci di meritare onori ma pronti a chiedere miserie civettuole ,  servendosi di ipocrite parole quali democrazia e libertà, hanno dato spazio solo all’unico vero dio, il vero sovrano: il Denaro.
   Il Nostro, dentro il suo Regno dei Cieli, dove il plurale sta ad indicare tutte le sfaccettature del suo poliedrico pensiero, circondato e confortato laicamente da infinite rappresentazioni d’arte esistenti nel suo Regno-Museo, segno inequivocabile di distinzione, e dove comunque non fa difetto una Cappella di meditazione, curata con religiosa devozione, ecco dunque l’Anacoreta occulto trarre le sue amare  considerazioni conclusive ma non esaustive come un greco-filosofo  di  stampo platonico-hegeliano con cui l’Ammiraglio dalla sua Torre si identifica.
   Tra le tante osservazioni che il poemetto dispensa, Tommaso Romano sofferma il suo sguardo sulla relatività della cultura dell’Occidente cristiano chiedendosi cosa oggi ci consegna non il progresso, encomiabile nella misura del suo apporto all’umanità, ma il progressismo che avanza senza un limes. Un limes che apre le porte dell’Europa cristiana ai “barbari”che premono ai suoi confini. Assistiamo, giusto per richiamare un dato storico, alla seconda caduta dell’Impero Romano d’Occidente, solo che qui si tratta di tutto l’Occidente cristiano. Ed è in questa falla aperta che si infiltra l’ateismo e cerca di prendere piede l’Islamismo. Questa volta non un’invasione dal confine Reno-Danubiano ma dall’Africa islamica.
    Ne viene fuori un deserto abitato da avvoltoi senza Dio  dove il Verbo di Cristo si è sprecato senza che nemmeno fosse ascoltato, quasi una scelta obbligata  tra la Verità e il Vuoto. Un mondo dove oggi la parola civiltà  risuona  vuota e dove la primigenia “polis” si è smarrita nei bui vicoli ciechi al cui confronto i maltrattati “secoli bui” appaiono rifulgere di luce propria.  Unico appiglio per i pochi liberi viandanti l’avere tra i propri  il valore della distinzione. Una macchia oggi imperdonabile bollata dai massimalisti come eresia rispetto l’Egalitè o quell’egualitarismo strisciante, quello certamente eretico per il nichilismo che intrinsecamente racchiude, apportatore di un vento tanto subdolo quanto proditorio. Un vento che ha spento tutte le candele della saggezza, compresa quella della coscienza individuale fagocitata in quella  collettiva che il Durkheim fa nascere da una socializzazione meccanica e che perfino identificata con Dio. Si salva solo una candela. Ed è quella che il “sofologo” Romano mette, a ben proposito, sulla copertina del suo poemetto, opera dell’olandese Gerrit Dou, e posta emblematicamente tra una clessidra e un mappamondo (il tempo che passa e il mondo che scorre) a far luce su un libro che un anonimo astronomo consulta.
   E’ la rappresentazione plastica dello studio di un volume, probabilmente un testo sui “massimi sistemi” di Galileo, visto che il dipinto data 23 anni dopo la morte del grande artista-astronomo. E non sfugge al riguardo il fatto che l’eminente scienziato, davanti ai giudici del Tribunale della Santa Inquisizione, dovette abiurare i suoi studi sull’eliocentrismo, subendo  a distanza di 350 anni una parziale riparazione ad opera del papa polacco Giovanni Paolo II che annullerà formalmente il vergognoso processo visto che anche  il suo connazionale Copernico  circa un secolo prima del Galilei aveva formulato la medesima teoria. Ed è proprio la semiotica di quella candela, che in metafora esprime la luce della conoscenza, a dare  un secolo dopo il nome a quel movimento politico, sociale e filosofico a cui fu dato il nome di Illuminismo e al Settecento il Secolo dei lumi. Si può ascrivere a quel periodo il tempo in cui Cristo fu sfrattato dai Suoi altari. Sfratto ancora continuato fino ad oggi dai topi infetti, come li chiama l’Autore, che si adoperano per svuotare il significato del Suo Verbo presentandosi quali sedicenti rivelatori di verità occultate.
   Di fronte a tanta desolazione, il Cantore di Verità si ritrae in un silenzio ascetico consapevole che il tacere è la sola composta difesa da opporre.  Ma non l’ultima, giacchè di conserva c’è ancora un verbo da materializzare: resistere. Resistere quindi con paziente sopportazione forti soltanto di ciò che siamo e di ciò che noi sapremo essere e questo  per sopravvivere finchè possibile.
   Leggendo Nel mio Regno dei Cieli  non c’è bisogno di orpelli agiografici per identificarsi in questi pensieri veritativi. Questa del poeta-filosofo Tommaso Romano, signore del “ Muffoletto del Beato”, non è solo un’accorata denuncia ma una sorta di “grido di dolore” di sabauda memoria, che si leva contro l’eretica secolarizzazione della società e nella fattispecie contro quella TV- spazzatura, che penetra serpeggiando dentro la sacralità delle famiglie per apportarvi la cultura quantizzata del non-essere e del nulla. Egli pertanto si rivolge ai pochi appestati dalla fedeltà sempiterna perché si difendano dai coccodrilli ipocriti che coniano falsi concetti manipolando uomini a cui propinano favole sul nuovo concetto di felicità. Felicità raggiungibile con l’alienazione dell’anima e la vendita del corpo, per uomini che, secondo il Lo Bue, “ sono perduti senza perdizione nel vuoto regno del niente”.  Un niente, aggiungiamo noi, fatto di promesse non mantenute, di sogni ceduti all’oscuro viatico del materialismo, di momenti di vita sorretta da errori per compiacere l’Io adulatore, di pentimenti tardivi e mai veri. Un niente dove regna solo il silenzio fatto di nulla. Un vuoto assoluto senza luce né suoni e per i quali, aggiunge Romano, il Dio non solo non c’è mai stato ma neppure ha dato e creato.
    Il poemetto di appena 99 copie numerate, fatta salva la presentazione, si compone di dodici pagine, giusto dodici come il numero dei discepoli di Gesù, e si presenta a verso volutamente libero per consentirne la particolare struttura di rottura di ogni schema prefissato la cui articolazione appare come scomposta ma organicamente unitaria. Esso non contiene massime, non addita un codice comportamentale, né alcunché che possa richiamare il “Discorso della Montagna” con intenti etico-educativi, ma afferma negando, giacchè la negazione è l’affermazione dell’esistenza. In fondo è un elogio alla meditazione e un tentativo per svegliare gli animi, per riflettere come invertire una cultura di vita oggi quantizzata . Sostituire pertanto alla “massa” del corpo la ricerca dello spirito attraverso un viaggio interiorizzato alla riscoperta dell’anima, di quell’anima che è un credo di principi si da guidare il suo ritorno all’uomo. Solo così  l’uomo-individuo può impossessarsi nuovamente di sé stesso con una ritrovata coscienza che lo conduca verso una seconda via che lo allontani dal baratro del progressismo esasperato che con sempre nuove invenzioni vuole liberare l’uomo dalla sua natura e sostituirsi al Creatore. Negli intendimenti di Tommaso Romano, nello specifico dissacratore-costruttore, si può pertanto cogliere una speranza , quella speranza, mai tardiva e inutile, di restituire la parola all’uomo “meccanico” e all’intera famiglia del mondo cristiano attraverso il pensiero veritativo  della parola di un Maetre à penser, quale è Romano, che a buon diritto si annovera tra gli  umili servitori della Verità.         

martedì 6 giugno 2017

Prefazione di Salvatore Lo Bue al Volume di Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'insegna dell'Ippogrifo)

di  Salvatore Lo Bue

No, non è la terra desolata la terra del poemetto di Tommaso Romano. Aprile, in essa, non è il più crudele dei mesi, nessuno gioca a carte col destino né la morte trascorre vittoriosa tra i versi e le vite. Nessun Phlebas ha posto in questi incruenti, vuoti, adiposi giorni del primo decennio del nuovo millennio: il nulla si è riassorbito, non pretende una più o meno evidente origine: è, semplicemente, diventato niente, un niente da cui niente è e niente deve diventare.
Siamo diventati gli uomini vuoti, gli uomini impagliati cantati da Eliot, quelli “che poggiano l’un l’altro/ la testa piena di paglia”: tutte figure “senza forma”, tutti ombre “senza colore”, paralizzati dalla energia mai spesa, nei gesti privi di movimento.   
Gli uomini che non hanno occhi, che si svegliano soli, vivi “nell’altro regno della morte” che è l’anima senza sangue e il corpo senza spirito, perduti senza perdizione nel vuoto regno del niente.
E niente accade se non la vuota negazione in questa terra ormai più neanche desolata, perché anche la desolazione l’ha lasciata, e la tentazione stessa si è ritratta perché neanche degni di essere tentati sono gli uomini impagliati. Perché sempre “Tra l’idea/ e la realtà/ tra il gesto/ e l’atto/ cade l’Ombra. Tra la concezione/ e la creazione/ tra l’emozione/ e la responsione/ cade l’Ombra. Tra il desiderio/ e lo spasmo/ tra la potenza/ e l’esistenza/ tra l’essenza e la discendenza/ cade l’Ombra.”
Tommaso Romano punta il suo sguardo radicalmente nostalgico su questo nostro mondo nientificato. La sua nost-algìa è dolore del ritorno, rimpianto più che disincanto, desiderio di fuga più che viaggio. Il poeta sa, e ne rivela il dramma insipiente, che “è questo il modo in cui il mondo finisce/ non con uno schianto ma con un piagnisteo”, ma il piagnisteo evita, con una visione concreta, minimale, visibile del suo disagio originario. Orami il tempo è passato, a grandi passi si annuncia il tramonto e tutto si stempera nella piena consapevolezza della cenere che il tempo ha deposto, ma nella umiltà del poeta è compresa la sua fragile ma mai arresa denuncia dell’ideale perduto.

“Ora che il tempo
ti ha distaccato
da tutto
guardi e vivi quasi
da greco filosofo”
così fra strade
antiche e nuove
Montevergini, Albergheria,
Borgo e Serradifalco.
Ma quale greco e quale filosofo
volete che sia,
utile a voi, forse,
per incensare le vostre miserie
le pseudoscienze delle vostre frustrazioni
la “poesia” del vostro smarrimento
dell’incapacità a essere
se non la pagina in cui desiderate
onori immeritati
pagine di comparaggio
di miserie civettuole
sterco del maligno
che chiamate errore
e che amate trastullare
come un orpello bello
per la vostra miseria
infinita.
Sì, ha vinto il banale, “tutto ciò che ci incatena” prima dell’orizzonte, la speranze del mutamento, perché non è facile fondare “dentro di sé/ prima che in altri/ la libertà”. Ha perduto il cuore dell’uomo nell’universo mercificato, che contrabbanda democrazia e acquista tirannia, che ha rifiutato la tecnica, perché “tutto è relativo ormai/ e tutto è nulla annunciato/ nel deserto dei cuori”: Dio stesso è stato frantumato come l'antico Dioniso dalla specie titanica, perché sono tornati gli antichi Titani, i Giganti della montagna, i segreti Dominatori di una terra che hanno preteso senza vita e senza poesia. E che per primo hanno fatto fuori, perché unico ostacolo ai disegni del Male, il Salvatore, il Cristo dell’Amore, il Logos del principio, con la complicità dei mortali che adorano solo il denaro.

O Cristo,
sei venuto per nulla
profeta fra tanti
forse un po’ petulante
nella adagiata livellata consuetudine altrui.
O Cristo,
non t’immischiare
finché non ti sfrattano del tutto
per un minareto
o un teatro delle beffe
o un comizio
o per far prosperare topi infetti.
T’hanno sfrattato, infatti,
caro il mio Signore,
non conti nulla
- e forse è bene così -
non mischiarti
e lascia a pochi
e il sangue e il corpo,
pochi appestati
fedeli al sempre.

Così prende nuovo vigore, nel poemetto di Tommaso Romano, la profezia terribile della Leggenda del grande inquisitore di Fedor Dostoewskji. Se intollerabile è il peso della libertà (e Cristo è la Libertà) allora è necessario deporre il Messia ai piedi degli altari falsi e bugiardi, affidarlo alle cure di tutte le chiese perché possa essere anestetizzato, ridotto, umiliato, nuovamente deriso. Perché, in fondo, “Dio/ non solo non c’è mai stato/ ma neppure ha dato e creato/ men che meno nella rivoluzione/ di sé”; e nella trasmissione delle età, che cosa sono quelle antiche storie di salvezza se non “favole imbelli/ per bimbi di una volta/ con giglio e marsina”? E ogni pensiero libero è eresia, ogni libertà un oltraggio nella terra non più desolata abitata dal niente, perduta l’anima, dimenticata la legge, oltraggiato il cuore. Hanno vinto i Giganti della montagna, ha vinto il potere illuminista, l’idea di progresso ha perduto la strada dell’ideale, ha dimenticato il nome del cielo. Dai pontefici “nuovissimi” ai “nuovi potenti che odiano il genere umano” così sottilmente parlando per suo favore ma in verità spegnendo con cura la luce di ogni anima viva che resiste ma che prima o poi si spegnerà, tutto si perde, tutto diventa inutile, vacuo, disperante, mortale. Quale mondo ci attende ora che tutto come sempre continua, ora che niente si ferma e precipita nell’abisso orrendo dell’oblio? Perché niente vale, non c’è più futuro e niente vale la pena.

Non vale pena alcuna
la testimonianza
non si quantizza, non rende
strano il testimone isolato
cantore di Verità,
ma la verità non esiste
quando lo capirai veramente, siamo seri,
l’apocalisse è soltanto un testo letterario
pensa piuttosto a tesaurizzare
il resto si vedrà
se vuoi non perdere
il preziosissimo tempo passato a pensare,
dopo vedremo
non si può
favoleggiare
il futuro
dato che forse la morte
presto s’annullerà,
stiamo alacremente lavorando al fine
tutto s’allunga
non si sa per qual fato,
intanto, lavorare
per l’ingranaggio infallibile
non pensarti mai
lavora
produci sempre più,
la stanchezza non esiste
se non per gli eletti
gli unti del dio terreno massimo,

In questo mondo dominato dalla assenza del Logos e dalla potenza di una vuota Comunicazione che niente comunica e tutto decide e impone che cosa resta allora? Morire? Arrendersi? Resistere? Illudersi? Credere? Fuggire? La terra degli uomini vuoti è potente perché niente più della vuotezza concede spazi al Male. Ma al poeta che resta?
La Parola non muta, la bellezza è luce e verità. L’anima del poeta è già salva fin dal principio. Ma occorre un riparo, uno spazio in cui la Luce possa essere custodita, in cui la Vita appaia nello stesso tempo ma in tutti i tempi diversi che la con pongono.  
Occorre una stanza del cuore, che sappia reagire all’oltraggio di una società senza scopo, alla invidia degli uomini vuoti, dove attingere l’olio che alimenti la lampada del cuore, dove essere e ritrovarsi intatto come in principio, come quando la sorgente ha cominciato a scorrere e l’acqua della nostra anima era pura, trasparente, appena battezzata dalla speranza. Perché la salvezza è anche un luogo e il regno dei cieli possiamo costruircelo sulla terra, se racconta delle stelle fisse di tutta una vita, delle irrinunciabili essenze che governano ogni bene e la felicità.
Tommaso Romano ha costruito la Casa della Poesia, il suo piccolo regno dei cieli nella sua casa-studio-sacrario di Palermo.
Egli, il Des Esseintes senza disperazione e senza turbamento, traducendo perfettamente senza deviazioni ideologiche la poetica decadente, a saputo trasformare in poesia la sua vita, in arte il suo tempo, in casa la sua anima. Entrando nel tempio sacro della sua unicità, ha reso unico il suo transeunte presente in un presente senza tempo che sintetizza la storia come memoria esperita e mai perduta, che si rinnova in oggi oggetto, quadro, disegno, pittura, scultura che accorcia i tempi e sfiora l’eterno. Il miracolo di questa casa che è il regno dei cieli che ha saputo creare sulla terra d’esordio e d’attesa della sua vita è lo stesso miracolo di questo poemetto che sintetizza, come fosse già scritto da tempo e ora emerso, la storia di un’anima.
Non sono piccole cose, di certo non di pessimo gusto. Non vive Gozzano in questo spazio ideale, platonico, della casa del poeta. Vive l’Idea. Che l’Arte sia più della vita, oltre la vita, prima della vita, come l’Idea nella pianura della verità è eternamente “prima” della cosa in cui si incarna. Che la poesia possa essere una costruzione di memorie non solo trascritte su foglio, ma raccolte sulla strada del mondo, sul cammino a volte doloroso della memoria. Si, il tempo si è fermato dove ha preso dimora la Memoria. E presto il Viandante-Poesia la raggiungerà e abiteranno per sempre insieme, nella stanza miracolosa.
Qui, nel regno dei cieli di Tommaso Romano, “l’esilio delle cose ha una Patria, l'eletto spazio sacro perdona tutto ma non il banale. Qui il mondo si perde, gli uomini restano, per Dio è disposto un altare. Se la sua casa è il Tempio di Tommaso Romano, egli ne è l’altare maggiore, la luce del cero pasquale che non si spegne.
La casa del poeta, il suo regno dei cieli, è l’Unico composto, l’organismo della memoria e della vita vivente nei frammenti raccolti: oggetti-frammenti, kairòi pindarici, elementi di quell’intero dissipante che è il trascorrere delle acque del tempo qui fermate per sempre.
Ma tutto passa.
Ahi, misera passasti.
Nerina è la Vita. Il soffio. Il divenire travolgente. E come un sogno fu la tua vita... E come un sogno è la nostra vita. Così, alla fine il Grido... “Non bruciate le carte,/ non bruciate questo mosaico,/ non smembratelo,/ non disperdetelo/ è amato come perfezione possibile/ s’accresce come Graal d’anima mia/ ... Pietoso grido di chi sa che ha un destino di morte... Ma che di chi non sa che il regno dei cieli non muore mai. E il tuo regno dei cieli lo hai reso eterno, Tommaso, mio amico, in questa invocazione mistica, di cui “resteranno le parole”, perché questo “poemetto d’Ottobre, inattuale” è una al vento, al Vento che dove vuole spira, e ogni cosa che tocca eterna.