di Anna Maria Bonfiglio
Di Tommaso Romano, scrittore, poeta, editore, saggista, ho letto parecchie opere, di alcune ho anche scritto, ritrovando in ognuna un carattere diverso e originale, sempre comunque in linea con le caratteristiche intellettuali e umane dell’autore. Mi trovo adesso di fronte ad un testo di particolare interesse, sia per la forza della parola, sia per il “coraggio” dell’autore di esporre la propria indignazione, la propria amarezza e, direi, il proprio scoraggiamento di fronte ad una realtà sempre più povera e desolante, con un approccio che si potrebbe definire “politicamente scorretto”. E aggiungerei, vivaddio, legittimamente scorretto. Il poemetto Nel mio Regno dei Cieli è, a mia lettura, una sorta di pamphlet in versi, un accorato e acre richiamo all’umanità tutta perché riconosca l’abisso verso il quale è protesa. Nelle brevi sequenze in cui è scansionato riconosciamo un ampio arco di tonalità poetiche: il respiro lirico, l’aggregazione di molteplici sentimenti, la nostalgia per tutto quello che è andato perduto e l’ironia amara di chi ha preso coscienza di uno status incontrovertibile. L’incipit potrebbe sembrare una dichiarazione d’intenti: “Ora che il tempo/ti ha distaccato/ da tutto/guardi e vivi quasi/da vero filosofo”. Ma, appena più avanti, altri versi rispondono opponendo una sorta di dura invettiva verso la vanità e l’ipocrisia: “Sì, miseria/è il balbettare/frasi gentili/odi alla luna/e non sentire che tutto crolla/si smarrisce/anche ciò che era l’umano”. Il poeta prende le distanze dalla concezione di poesia sognante e astratta, avulsa dalla realtà e dalla società malata, quasi ignara della prepotente presa di potere della mercificazione. Nell’acquisizione delle regole mercificatorie l’uomo ha permesso che fosse il denaro il demiurgo dell’esistenza, ha relativizzato ogni valore, perso i punti di riferimento morale e spirituale: “tutto è verità, ma nessuna verità, nel profondo”. La parola poetica di Romano si fa amaramente ironica quando sfiora il concetto di religiosità e di cristianità: “T’hanno sfrattato,infatti,/caro il mio Signore,/non conti nulla/-e forse è bene così-/non mischiarti/e lascia a pochi/il sangue e il corpo,/pochi appestati/fedeli al sempre”. Versi provocatori che attaccano il cedimento morale e “ il compromesso al vuoto che avanza come deserto”. Il sangue e il corpo, Ministero e Mistero, sono il privilegio dei credenti, “fuoco dell’anima” che non va disperso nel “perbenismo e nell’ipocrisia”. La scienza ha sostituito il concetto di Divinità, si va per selezione e ciò che conta è produrre e arricchirsi. Punto nodale del poemetto è l’alienazione dell’uomo-poeta Tommaso Romano da una realtà disumanizzata e da una società massificata che disconosce la dignità del genere umano. Da ciò l’esigenza di crearsi un proprio Regno dei Cieli che vada al di là del senso che comunemente si dà all’espressione, un luogo-non luogo dove sacralizzare tutto ciò che costituisce la propria essenza intima e dove espandere la propria idealità. Un testo forte, questo di Tommaso Romano, ideologicamente onesto e in controtendenza con l’omologazione imperante, i cui punti fondanti sono il risentito je accuse alla società, la deplorazione dell’impoverimento spirituale dell’umanità e l’elogio di quella regalità relativa alla bellezza e alla distinzione.
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