di Giuseppe Bagnasco
A distanza di un anno dalla pubblicazione di “Un regalo
bellissimo”, per la commemorazione di Cristina Campo nel cinquantenario della
sua scomparsa, l’Artista del “Pensiero perenne”,Tommaso
Romano, torna a donarci l’ultima sua imponderabile fatica letteraria: L’airone
celeste – Ed. All’insegna dell’ippogrifo. Palermo 2018. Sono 51 poesie e un
testo con 11 stanze di pensieri, alcune per ricordare persone amiche, altre
semplicemente per esprimere definizioni concettuali e altre ancora di pura
speculazione. Della stesura di questo impegno letterario, come solitamente si
conviene, daremo all’integrità del testo la nostra personale lettura. Intanto da
subito, ci sorprende un aspetto di originale semplicità. Si tratta di un numero
che rientra nel simbolismo e che si ripete nella Bibbia così tante volte da
assurgere ad un elemento quasi sacrale: il numero Quaranta. E così nelle sacre
scritture lo troviamo nel Diluvio Universale, nel soggiorno di Mosè sul Sinai,
nella Quaresima, nel soggiorno di Gesù nel deserto, nelle Sue ore trascorse
dentro il Sepolcro fino all’Ascensione dopo la Resurrezione. Sempre e solo
quaranta. Un numero che si desume dal novero delle prime (quaranta) poesie (di
cui 26 datate e 14 a completarne il totale), che precedono lo spazio dedicato a
quell’airone celeste che nel trascorso secolo letterario risponde al nome di
Cristina Campo. E non c’è, “al di là di
ogni ragionevole dubbio” la possibilità di sbagliarci se l’Autore nella lirica
intitolata “Libero airone” del sunnominato “Un regalo bellissimo”, scrive: “…
uno sguardo/ disteso/ un lieve tremore/ gentile/ a presto/ airone celeste/
meraviglia d’uno/ stupore inatteso/ a presto... / prima che l’incantesimo/ si
disperda fra le brume/ nella nebbia/ della residua memoria”. Puro lirismo, per
un incontro del diciottenne Autore con una persona dalla statura letteraria e
personale eccezionale. E’ una folgorazione, quale novello Saul, una visione
imprevista di cui “ resta l’abbraccio in mente/ permanentemente/ persiste/
annullando perfino/ il gelo profondo” (della morte). Visione che resta oltre la
morte ed è possibile “vivere” oltre se lo spirito, come quello della poesia,
lascia sulla “carta ferita d’inchiostro”una traccia in cui tutto è “decifrabile
in chiave di destino” come afferma la Campo. Un destino che nella raccolta, a
parte le liriche dedicate a personaggi anche del passato, inevitabilmente si
compie “fra due abissi/ da cui veniamo e a cui andremo…” (v. “Nel limitare del
tempo”). Il tutto racchiuso nell’Attesa “dell’eterno ritorno all’uguale” e che semanticamente racchiude una vita, che
per un animo gentile quale può essere quello di un poeta, deve essenzialmente
essere guidata dalla bellezza. Un valore quello della bellezza che è compagna e
conforto per il Nostro, alla quale si dedica nel ricercarla con certosina
pazienza sia che si tratti di quella interiore, sia che si trovi in quella
espressa dalle cose. La bellezza, affermava Cristina Campo, è “frutto inevitabile
della necessità ideale” ed è a quest’intima necessità che l’Autore risponde nel
cercarla in quelle cose di cui nel suo “Regno dei cieli” si circonda. Sono
oggetti che colleziona, via via che le scopre, per evitare che cadano in mani “avide,
infide e volgari” e soprattutto per contemplarne la visione lungo momenti che
durano e si ripetono “finchè vita ”(v. L’ordine sacro). Ma c’è un altro aspetto
che lega Tommaso Romano, secondo la nostra interpretazione, alla “divina”
Cristina Campo e sta nel primo verso riportato nella prima poesia de “Un regalo
bellissimo”: “Due mondi – E io vengo dall’altro”. Proprio quello che viene
indicato dal Poeta e riposto in quell’Altrove dove risiede il suo spirito. E’
lì che trova la sua dimensione, la sua “essenza” e quella distinzione che è l’altra
innata nota caratteriale nell’indole del Romano e che risiede nel valore
dell’aristocrazia. Aristocratès, in greco antico colui che si isola (come non ricordare la
terra di Thule?), è l’altra faccia della medaglia romaniana. Infatti tanto lui è
estroverso e accattivante nel “demolire” il pubblico con la sua oratoria
attenta e torrenziale, quanto è riservato e immerso a colloquiare con sé
stesso, col suo spirito nel silenzio della sua “Torre dell’Ammiraglio” da dove
scruta e giudica il tutto con animo “contemplattivo” (direbbe Lucio Zinna). Da
buon Salomone usa come unità di riferimento la sua personale “sezione aurea”,
come fosse un novello Fibonacci impegnato a definire per Federico II, con la
sua sequenza quel numero aureo con cui comporre il disegno esoterico ed architettonico
di Castel del Monte. Una “Unità” basata sui precetti cristiani e sui valori non
negoziabili (come oggi si usa dire) e riconducibili alla Verità, alla Bellezza,
alla Memoria e alla Giustizia se non annegata, come lui afferma, nel sofismo. E
non solo. A questi valori il Nostro aggiunge e raccomanda la beata lentezza che
serve, oltre a contrastare la frenesia parossistica del vivere velocemente, a riconciliare
lo spirito al mondo intrappolato nel crepuscolo dei costumi e in quella
“dittatura dell’ignoranza” che è madre del livellamento verso il basso della
cultura di una società che intende riprodurre quella “Società degli homoioi”
(uguali) di spartiata memoria. Tommaso Romano che nella Crestomazia “Poeti in e
di Sicilia”, viene indicato come “poeta tra i celebrati in ambito europeo”, non
esita a indossare il saio del novello Savonarola nell’intento, forse vano, di
fustigare i costumi, indicando proprio in quell’Altrove il sopravvivere (v.
“Altrove”), “né si placa il suo sdegno” verso quel disfacimento dei rapporti nel vivere quotidiano dove
corrotta signoreggia l’ipocrisia che è simulazione e vigliaccheria di chi per
nascondersi si traveste, come il Nostro afferma, da “camaleonti, iene e
sciacalli”. Definizione questa che condivide, anche se in un particolare diverso
contesto, con quel Tomasi di Lampedusa autore dell’impareggiabile “Il
gattopardo”. E qui, a rimarcare la crisi di una civiltà deviata, non a torto
individuata come crisi del sistema occidentale, non possiamo non citare la
frase dell’onnipresente (in spirito) Cristina Campo quando afferma:” Se ancora
due uomini incontrandosi si inchinano l’uno all’altro, la civiltà è salva”. Nella
fattispecie, ad oggi c’è una sola civiltà (orientale) in cui ciò accade ed è
quella giapponese, dove è sempre vivo il culto della Tradizione, così cara al
Nostro. Una Tradizione che, nata nel “solco di Roma”, è madre di tanti valori mentre
allarma la recente notizia, per quanto riguarda il depauperamento della
cultura,che quest’anno agli esami di maturità sarà tolto il tema sulla storia,
dimenticando che togliere le radici ad un popolo equivale a minarne l’identità.
E pertanto di fronte a tanta “sventurata età” (v. “Il sogno degli dei”) il
Poeta scaglia la sua indignazione, tra gli altri, in coloro in cerca di
vanagloria e di “applausi composti” (v. “Ipocriti consensi”) non risparmiando
nemmeno i luoghi di culto “Chiudete le chiese, per Dio” (v. “Invano in
ecclesia”) che suona come una invocazione a tutela dell’Onnipotente. E pertanto,
come prima anticipato, è nell’Altrove che il Poeta trova rifugio con
aristocratica anomia, nell’attesa (sempre presente) che “ l’alba arrivi presto/
per farla finita col buio”. Un’attesa dove però lo spazio non può essere riservato
all’otium ma a coloro che hanno l’animo
a scrivere “sapendo che sarà gravoso/ poter confidare/ con sufficienti parole/
quanto pure hai scritto…e con l’esortazione (soprattutto in ossequio a “L’Elogio
della distinzione” per i gentiluomini d’un tempo) a “ non scrivere/ di chi hai
amato/ che forse ami/ o che non amerai più/ non potrai” (v.“Gravoso scrivere”).
Un’attesa che comunque è proficua di meditazioni che portano ad un altro tema: l’Essenzialità
nel comportamento come pragmatica soluzione del “limitare del tempo”. Sì perché
il Nostro è un “Sacerdote dell’Essenziale” senza “giravolte e orpelli”. Non
possiamo terminare queste note, senza riportare con la lirica “Avrò memoria”(
che chiude la raccolta) il suo saluto, quasi un’ultima lettera pregna di
dettati testamentari. E’ una lirica che chiude la sua primigenia vocazione
futurista e nella quale sommessi e testimoniali ricordi, disegnano un cuore “romantico” sulle onde
memoriali… “avrò memoria/ del respiro delle foglie/…della sensibile fedeltà di
un cane…” (ricorda “paneperso”)…di affetti veri, difetti e omissioni/ miei e
d’altri…di storie senza tempo/ di ciò che sono stato/ che mi sopravviverà alla
polvere/ certa/ Non abbiate memoria di me”. Ecco in definitiva il destino di un
Uomo di pensiero conscio che i suoi scritti gli sopravvivano e si salvino
“prima degli addii”. In definitiva da “L’airone celeste” emerge la statura di
un uomo cosmico, di un filosofo prestato alla poesia, che pure non è stata la
sua prima musa, che quotidianamente da accorto docente cerca di forgiare
giovani menti ai quei valori che ne
reggeranno la vita. Ma c’è un ma. E’ un’ultima nota aggiuntiva alle precedenti
considerazioni e che ci viene suggerita, quasi d’improvviso, dal numero (ancora
quello) dei testi poetici presenti nel volume: 52, lo stesso numero delle
settimane di un anno. E allora, seguendo il filo della nostra interpretazione,
tutto diventa più chiaro e cercheremo di riepilogarlo, servendoci di chiari
indizi, a cominciare dal titolo dato alla raccolta: L’airone celeste. Il
disegno della copertina di Ilaria Caputo omeopatica col titolo ritrae, crediamo
su commissione, un airone che si libra sullo sfondo del cielo, della terra e
del mare. Come quarto elemento mancherebbe il fuoco ma questo è impersonato in
metafora dall’airone stesso, inteso come luce celeste (lo stesso Zeus, secondo
la mitologia greca) e quindi in copertina sono riprodotti i quattro elementi
primordiali, anche se il Nostro parla di “cinque elementi volubili”, seguendo
il dettato aristotelico che identifica nell’etere il quinto elemento come
materia delle sfere celesti. Questo il primo indizio. Ma se l’airone disegnato
è celeste (dal latino “coelum”, cielo), identificabile quindi come airone del
cielo, abbiamo un airone-Cristina che si accinge a volare per 52 settimane per
compiere in un anno la rivoluzione intorno al sole, e ritornare al primo giorno
identificandosi pertanto nell’ “eterno ritorno” richiamato dall’Autore e del
quale nell’antichità ci si rifà al mito di Persefone quale perenne ciclo
morte-vita. “L’airone celeste” costituisce quindi un “continuum” con “Un regalo
bellissimo” di Tommaso Romano dove primeggiano una inarrivabile Cristina Campo
e un “Profeta” che ne divulga il verbo e
ne offre il mezzo con i due volumi predetti. Altro indizio, non avulso dal contesto è la nota, a margine del
primo libro, del come questo sia “stato
definito nella notte del Solstizio d’Inverno ( del 2017), luce nel segno di
Orione, il conoscitore dei campi celesti…”, così l’Autore. A ciò bisogna
aggiungere che il secondo inizia con la poesia “Nel limitare del tempo” dove è
il Tempo a delimitare i “due abissi” e non l’uomo e chiude con la lirica “Avrò memoria”,
rimarcando il dualismo del Tempo e della Memoria e il fatto che all’uomo è dato
solo ciò che è dell’uomo e nient’altro. Il resto, rimarca l’Autore, appartiene
all’Altrove, ai Campi celesti, al Campo dello spirito. Per comprendere allora quanto
suggerito da queste tracce indiziarie non possiamo non escludere come il volume
possa essere esaminato dal punto di vista esoterico, visti gli indizi della
copertina e i numeri occulti del 40 e del 52 a cui potremmo aggiungere la
voluta coincidenza della fine del primo volume con il Solstizio d’inverno quale
fine simbolica dell’anno. E d'altronde nella sua semantica, “esoterikos” vuol
dire “interiore, ermetico, incomprensibile, nonché rivelato a pochi”. Ma,
aldilà della veste esoterica, c’è un modo per avere una immediata comprensione
del pensiero campo-romaniano. Ci riferiamo al richiamato verso in “Un regalo
bellissimo” del Poeta: “ Due mondi – E io vengo dall’altro”. Basta solo questo
per capire come Cristina Campo e Tommaso Romano hanno all’unisono una uguale
visione giacché sanno da dove vengono e attraverso il loro cammino indicare
(anche ad altri) dove andare. Due mondi, dicevamo, letti come uno dell’immanente
di questa terra e un secondo celeste come l’airone, del trascendente. Un accenno
a quel ripetersi dell’ancestrale dualismo che sta alla base della nascita del
cosmo e di tante religioni. In primis di quella (dualistica) egizia dove la
terra dei faraoni si rifletteva nella
“cintura” della costellazione di Orione (il conoscitore dei campi
celesti), ma ciò solo per la configurazione orografica della prima ma distante ovviamente
dalla “lettura” fatta dai suddetti pensatori. A queste considerazioni non aggiungiamo altro se non che in fondo,
“L’airone celeste” si rivela come un viatico, un testo che sebbene inquadrato
in una struttura esoterica, nota a pochi, alla fine l’apparente occulto viene
svelato. Un viaggio, se così vogliamo leggerlo, intrapreso dall’Autore che dopo
una metaforica traversata lunga ben 52 tappe-poesie, consegna alla memoria (in
lotta con il tempo) la sua storia che (spera) sopravviverà nei suoi scritti, chiedendo per sé a chi
legge e verrà dopo, l’oblio.
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