di Lucio Zinna
Intenso poemetto di Tommaso Romano, neo-umanista panormita di ampi interessi e vasta produzione, a cui si devono in particolare, a far data dal 1969, diverse e apprezzate opere di poesia. In questo singolare lavoro (davvero fuori cliché), edito in 99 copie numerate, il poeta canta il proprio risentimento, il disappunto, per lo svuotamento progressivo, costante, di valori e loro perennità, che affligge il nostro tempo, a causa di quello che chiama “il relativo”: «Tutto è relativo/ormai e tutto è il nulla annunciato/nel deserto dei cuori.»
Dunque, nella realtà odierna, tutto è “relativo”, dice il poeta. Ma per converso nemmeno tutto è “assoluto”. A quel relativo da cui egli prende le giuste distanze non può essere ascritto, ad esempio, il tutelabile diritto alla libertà di opinione, che può solo esplicarsi nel rifiuto di ogni dogmatismo. Il relativo stigmatizzato dal poeta è dunque riferibile a tutto quanto comporti il pervicace svuotamento di significato di ciò che rende salda e ancorata la nostra esistenza e la nostra civile convivenza, rese invece sempre più fragili da interessi che gavazzano, più che nel transeunte, nel frivolo e nel provvisorio.
La riflessione che il poeta ci suggerisce e che deriviamo dalla lettura di questo prezioso libretto è che la nostra pseudo-civiltà viva una grande confusione, nella quale relativo e assoluto finiscono per confondere i loro ruoli, ossia relativizzando l’assoluto e assolutizzando il relativo. Tutto ciò non può avvenire se non a costo di gravi fraintendimenti, sconvolgimenti, negatività. Infatti, assolutizzando il relativo si creano idoli (anche nel senso di idola baconiani), si glorifica l’inautentico. A relativizzare l’assoluto si giunge a negare l’essenza a vantaggio dell’apparenza e fare della prima tutt’al più uno strumento da comodato d’uso o un belletto da bancarella.
In tali fraintendimenti (fra i quali gl’innamoramenti incondizionati al proprio Dio al punto da considerare nemici da abbattere coloro che, appellati infedeli, manifestino fedeltà ad altro Dio), è stato coinvolto Cristo, considerato «profeta tra tanti /forse un po’ petulante», il quale rischia di essere «sfrattato» per un minareto, osserva amaramente il poeta, il quale mira a ricondurre queste molteplici, contrastanti e fuorvianti dinamiche all’elementarità di un grande principio: quello del «volersi tutti amare».
E perché possa realizzarsi un tale percorso, volge lo sguardo alla poesia. Una poesia – osserva – che non dimentichi che la bellezza senza amore è dimidiata e votata alla propria vanificazione. L’arte, si sa, è astrazione, ma ogni astrazione (ab traho) non può che muovere dal reale. L’arte è la bellezza che dal reale trae linfa, da esso si eleva, in esso si eterna.
E come nel messaggio evangelico il nostro poeta trova l’impegnativo iter al Regno dei Cieli, così nella poesia trova accesso al «suo» Regno del Cieli, che dunque può cogliersi anche in terris, con e nella quotidianità. E per avvalerci di una considerazione di Salvatore Lo Bue nella sua puntuale prefazione, diventa in tal modo possibile vincere il banale, superare quello che il poeta chiama «il deserto dei cuori». E verso la falsa poesia è rivolto un altro strale di questo icastico poemetto: quella che finge di dire e non dice, che si nutre di autocompiacimento senza altri obiettivi, la poesia giocata – come si sarebbe detto in altri tempi – sul “verso che suona e che non crea”. Non “crea” mondi nuovi, di nuova umanità, di sguardi verso orizzonti nuovi.
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