di Giuseppe La Russa
Chi conosce Tommaso Romano sa, ovviamente, della sua intensa attività, del suo profondo impegno come mediatore culturale nella vita di Palermo, capoluogo siciliano in cui egli vive e in cui ha fondato la sua casa–museo e fondazione Thule. Proprio a quest’ultima sede logistica viene da pensare nell’approcciarsi alla lettura del poemetto Nel mio Regno dei Cieli, edito nel 2017 con prefazione di Salvatore Lo Bue. Non si tratta di un accostamento semplicistico, perchè in fin dei conti è necessario un semplice dialogo, un pomeriggio trascorso in compagnia di Romano presso la fondazione, per capire quanto quel luogo rappresenti la personalità stessa dello scrittore, una stanza sita vicina al caotico centro di Palermo eppure così lontana da esso, immersa in una dimensione che profuma di atemporalità, di silenzio, di attesa. Chi scrive questo pezzo si è ritrovato spesso lì, a dialogare con Romano, a sfogliare dei volumi, a contemplare tutto ciò che adorna quel non-luogo e una delle cose più sorprendenti è come ogni oggetto vari spesso collocazione, nell’assunto, dichiarato da Romano stesso, di una continua ricerca della perfezione, ma nella consapevolezza che la perfezione non esiste: una questua perenne ed inesausta, dunque, che dalla vita convulsa di tutti i giorni si traduce anche nella quiete della fondazione. È lì che possiamo immaginare il pensatore, il poeta, il lettore, l’uomo Romano, orientato nel suo silenzio verso quella investigazione, verso quella ricerca di un senso, di un approdo, con lo sguardo verso il mondo esterno, teso all’ascolto del proprio «battito del cuore per poter percepire e raggiungere l’Origine», per usare le sue stesse parole.
Questa premessa, dunque, diviene funzionale per una interpretazione seria del poemetto Nel mio Regno dei Cieli, opera che consta appunto di silenzio, riflessione profonda e che, come Carmelo Fucarino bene analizza, «rappresenta l’urgenza di fermarsi e di cercare di dare un significato al proprio percorso umano, quotidiano e spirituale».
Gli occhi di Romano sul presente sono spietati, mettono a fuoco in maniera prorompente la deriva dei tempi, dove «solo chi sa produrre e frodare è», ha una vera essenza, può essere dentro il mondo; la constatazione forte è come la parola ‘Dio’ abbia assunto un significato relativo, che tutto sia relativo, che i cuori si siano fatti deserto, incapaci di far fiorire in sé la luce della Bellezza, della Verità, della libertà. Anche le parole sono abusate, anzi è la Parola che diventa insensata: questo concetto viene subito posto all’attenzione di chi legge, ad incipit del poemetto: e chi ha letto l’opera di Romano sa quanto per il poeta la parola sia essenza, manifestazione dell’Essere, quanto essa abbia «un valore fondante che non può essere disperso, soprattutto quando si tratta non della parola in quanto tale, ma in quanto esperienza forte di un linguaggio che è Verità».
La verità, inoltre: essa è un passaggio essenziale della ricerca di Tommaso Romano, verità che coincide con una vita autentica, con una riflessione capace di accompagnare lo sviluppo della vita stessa, che coincide con la bellezza, di cui l’arte può e deve farsi portatrice: ma adesso, constata amaramente il poeta, «tutti gli Dei sono giusti/tutti sono nella verità/perché tutto è verità/anzi nessuna verità,/in profondo». Viene meno proprio questa autenticità tanto ricercata, Cristo sembra essere stato sfrattato, chi segue veramente il messaggio evangelico è forse uno dei pochi “appestati”, uno degli ultimi baluardi, osservatore di come tutto stia crollando, «anche ciò che era l’umano».
In questo quadro desertificante, che risente certamente della lettura di Nietzsche, non dobbiamo però pensare ad un approdo nichilista e nullificante: lo sguardo è rivolto verso il nulla che si sta consumando, che si va plasmando agli occhi di chi osserva, ma non viene mai negata la presenza di Dio, della Bellezza, della Verità. Sono questi dei capisaldi che, nel demistificante presente, vengono messi da parte, ma da Romano continuamente rievocati, urlati, acclamati; il bisogno è proprio quello di un ritorno all’essenza, al silenzio operante, ad una vita fatta di verità e ad una verità fatta di vita. Cristo è continuamente cercato, così come ci ricorda un vecchio testo, Tutti parlano di vita, rivolto proprio al figlio dell’Uomo e in cui si possono leggere similari conclusioni: «Ti trovo e ti cerco/vicino e nella lontana attesa/in tanto smarrimento». Ma ciò che rimane è proprio il tacere, è il silenzio, si diceva: ecco perché quella premessa che immagina Romano all’interno delle stanze della fondazione ad osservare il deserto intorno, l’inferno dei viventi: «Che fare/, se non riconoscersi appena/fra liberi viandanti/sfruttati e senza diritti/se non il tacere/».
Che fare? Un’interrogazione rivolta a se stesso e a chi legge e ha la volontà di capire, di orientare il proprio sguardo ai bisogni estremi del proprio spirito, a chi ha capacità di resistere. Resistere è proprio l’ultimo invito, «forti soltanto di ciò che siamo e di ciò che noi sapremo essere ben oltre i vicoli ciechi», nella consapevolezza di uno sguardo che nonostante tutto rimane lucido, attento, che sa essere luce, perché, come Salvatore Lo Bue mette in evidenza, «la Parola non muta, la bellezza è luce è verità […] Ma occorre un riparo, uno spazio in cui la Luce possa essere custodita»: e il riferimento è proprio la casa-studio-sacrario di cui si diceva in apertura.
In quello spazio inviolato Romano fonda la sua prospettiva, descrive il suo silenzio, disegna la sua attesa, trae la luce che lo guida ancora nella ricerca, nella contemplazione, alla scoperta continua ed inesauribile di nuova Bellezza, al perpetuo desiderio del proprio regno.
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